Il cda straordinario si è chiuso con un nulla di fatto. Lavoratori e sindacati vogliono risposte e sperano di averle dal governo nell'incontro convocato per il 29 dicembre. E i possibili investitori vogliono vederci chiaro sui numeri
Doveva essere il giorno decisivo per il futuro dell’ex Ilva, al bivio tra la rinazionalizzazione e la continuazione dell’assetto a maggioranza privata, con lo spettro del fallimento che torna ad aleggiare. Invece è arrivato l’ennesimo rinvio, con la definizione di una nuova data clou, l’8 gennaio, nella speranza che sia davvero la volta buona.
Gli oltre diecimila lavoratori e i sindacati aspettano risposte, auspicando di ottenerne qualcuna già nella giornata di oggi, quando incontreranno il governo a palazzo Chigi. Ma il dossier sul gruppo siderurgico più importante d’Italia, segnato profondamente da anni di indebitamenti e malversazioni, sembra destinato a rimanere aperto.
Nulla di fatto
La riunione straordinaria del consiglio d’amministrazione di Acciaierie d’Italia, la holding nata nel 2021 che controlla l’ex Ilva – con una partecipazione dello stato italiano, tramite Invitalia, al 38 per cento, e un controllo dell’indiana ArcelorMittal con il 62 per cento – si è conclusa con un nuovo nulla di fatto, dopo circa tre ore di confronto.
Manca ancora l’accordo tra i due soci sull’aumento di capitale, necessario a ripianare i debiti, che superano abbondantemente il miliardo di euro, oltre che ad acquistare asset aziendali per portare avanti la produzione.
Si è quindi deciso di attendere un incontro tra i vertici degli azionisti, governo, Invitalia e ArcelorMittal, che dovrebbe tenersi subito dopo l’Epifania, lunedì 8 gennaio. Sarà in quella sede, stando a quanto riferiscono fonti vicine al dossier, che si proverà a trovare una soluzione in vista di una riconvocazione del cda e di una nuova assemblea dei soci.
Il sospetto è che le parti vogliano portare la vicenda per le lunghe il più possibile, avendo tutto l’interesse ad aspettare che si palesi qualche investitore seriamente interessato a rilevare il gruppo. Ma sono gli stessi possibili investitori che vogliono vederci chiaro sull’assetto e sullo stato patrimoniale della società prima di avanzare una qualsiasi proposta.
I sindacati vogliono risposte
Chi non vuole più perdere tempo sono i lavoratori e le organizzazioni sindacali che li rappresentano. Sembrava che la data che avrebbe determinato il futuro dell’ex Ilva potesse essere quella del 19 dicembre, quando il governo ha ricevuto i sindacati. Ma l’incontro si è concluso con una fumata nera e con i rappresentanti sindacali accampati fuori da palazzo Chigi in segno di protesta.
Speranze riaccese il 22 dicembre, in occasione dell’assemblea dei soci, anch’essa conclusasi con un nulla di fatto, proprio come il cda straordinario di ieri mattina.
Il tempo che passa alimenta la paura di una chiusura degli impianti, con danni enormi per l’industria italiana e l’occupazione. Oggi pomeriggio, alle 16, i sindacati metalmeccanici sono stati nuovamente convocati a palazzo Chigi, ma le possibilità che possa portare a una svolta sono ridotte al lumicino. E il motivo è da ricercare nell’incapacità del governo di esprimere una voce unitaria sul tema.
La divisione nell’esecutivo
Ministri e sottosegretari continuano a rinviare la decisione sull’ex Ilva perché il governo Meloni sulla questione è spaccato in due: da una parte il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso, fautore di una nuova nazionalizzazione, con il controllo di Invitalia che salirebbe al 62 per cento, togliendo lo scettro della maggioranza ai Mittal.
Dall’altra il ministro per gli Affari europei Raffaele Fitto, che punterebbe invece a mantenere il controllo in mani private, avendo già imbastito lo scorso settembre un accordo con Mittal per il rilancio delle acciaierie, utilizzando i fondi del Pnrr destinati alla transizione energetica.
Questi ultimi finora hanno messo sul piatto solo 320 milioni di euro: troppo pochi a fronte dei debiti accumulati che, secondo le ultime stime, ammonterebbero a 1,2 miliardi di euro. I costi troppo alti dei cicli integrali di lavorazione dell’acciaio hanno spinto la multinazionale indiana a ridurre fortemente gli investimenti in Europa, per spostarli in paesi in via di sviluppo.
«Investire su un impianto come quello di Taranto è totalmente irrazionale per loro», sostengono fonti di palazzo Chigi, che affermano però che la premier Giorgia Meloni, insieme al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, spingerebbe per la soluzione Fitto, puntando ad attrarre ulteriore capitale privato, nutrendo scetticismo sulla rinnovata gestione statale proposta da Urso, con la difficile transizione ecologica degli impianti che diventerebbe appannaggio del governo.
Importanti gruppi siderurgici come Arvedi e Gozzi sarebbero intenzionati a investire nell’ex Ilva, ma non a queste condizioni: vogliono prima vederci chiaro sui numeri, nutrendo forti dubbi sull’attuale gestione societaria, e di conseguenza vogliono che a gestire la trattativa non siano i Mittal, ma un commissario nominato dal governo che abbia pieni poteri sul dossier, capace di fornire ai potenziali investitori i dati sullo stato degli impianti.
«Ci sono tante incognite, e quel poco che si sa non è confortante», si vocifera negli ambienti legati a una possibile trattativa. In attesa che i prossimi incontri facciano finalmente un po’ di chiarezza su un’industria chiave del nostro paese.
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