L’ex presidente della Bce ha svelato le sue idee sull’Europa dei prossimi anni. Il cambiamento radicale che chiede non sembra sufficiente a far fronte alle sfide del futuro. Fuori dalla bolla italiana, l’agenda Draghi non sembra all’altezza dei tempi
La politica e i giornali italiani sono stati molto presi dal discorso pronunciato da Mario Draghi a una conferenza organizzata dalla presidenza belga del Consiglio Ue.
Nel discorso Draghi ha per la prima volta svelato le grandi linee del rapporto sulla competitività commissionatogli dalla presidente della Commissione europea von der Leyen e che sarà presentato in giugno. Da noi la discussione si è rapidamente avvitata in una querelle su quanto il discorso costituisse un atto di candidatura di Draghi alla presidenza della Commissione, che sarà rinnovata dopo le elezioni del parlamento europeo.
Quanto questa discussione sia surreale è dimostrato dall’eco ben diverso che il discorso ha avuto in Europa dove, giustamente, è stato dato molto più spazio al secondo rapporto commissionato (a Enrico Letta) da von der Leyen dedicato al mercato unico, e presentato nei giorni scorsi.
Il dibattito italiano, chiaramente ostaggio del destino del perenne ma mai dichiarato candidato Draghi, ha preferito concentrarsi su di un discorso di cinque pagine piuttosto che su di un rapporto articolato e completo.
Ci sarà tempo per valutare, quando la sua candidatura sarà ufficialmente presentata (se mai lo sarà), se Draghi abbia il profilo giusto per guidare un organo politico come la Commissione. Oggi vale invece la pena concentrarsi, come pochi hanno fatto, sulle anticipazioni del rapporto, che affronterà il tema cruciale della competitività e delle politiche industriali per la transizione; tutti temi fondamentali per il futuro del nostro malconcio continente, già affrontati dal Diario Europeo in diverse occasioni.
La diagnosi
Iniziamo dalla diagnosi: Draghi cita Paul Krugman, premio Nobel proprio per il suo lavoro sul commercio internazionale, che negli anni Novanta aveva fustigato un’«ossessione per la competitività» necessariamente orientata al sottrarre quote di mercato ai partner commerciali, in una sorta di gioco a somma zero. Già all’epoca appariva molto più sano, e benefico per l’economia globale, puntare sull’aumento della produttività.
Alla premessa, condivisibile, segue un altrettanto condivisibile bilancio critico delle politiche europee dei primi anni Duemila dieci: austerità e deflazione salariale orientate alla riduzione dei costi e alla concorrenza, principalmente intestina tra i paesi europei.
Analisi molto condivisibile, dicevamo, che tuttavia non può non strappare un sorriso amaro. Draghi si arruola nel nutrito gruppo di policy makers europei che oggi criticano aspramente la gestione della crisi del debito sovrano senza l’ombra di un’autocritica, come se all’epoca non occupassero posizioni apicali.
A titolo d’esempio, chi era presidente della Bce quando si decise di chiudere i rubinetti della liquidità alla Grecia che, in seguito al referendum indetto da Tsipras, aveva rifiutato l’ennesimo piano di austerità e tagli salariali?
Ma gli economisti, si sa, non sono inclini all’autocritica, e non si può certo crocifiggere Draghi al suo passato, anche perché il suo bilancio alla testa della Bce è stato globalmente molto positivo. Prendiamo quindi atto della diagnosi, e vediamo quali sono le proposte che saranno nel rapporto.
La dimensione europea
Contraddicendo in parte la premessa, Draghi dimentica la produttività e si concentra su come ritrovare la competitività europea in un mondo da un lato geopoliticamente molto più instabile, dall’altro avviato in una tumultuosa trasformazione tecnologica che oggi avviene principalmente fuori dall’Ue. Nel discorso il termine produttività appare una volta sola, contro le otto di competitività.
La ricetta proposta da Draghi si basa su tre pilastri ampiamente condivisibili: il primo è la dimensione (scala) adatta ad affrontare i cambiamenti strutturali del futuro. Usa e Cina sono economia continentali e, per ritrovare un ruolo di rilievo, l’Ue deve pensare europeo e non nazionale (anche la parola frammentazione ricorre spesso nel discorso).
Il secondo pilastro è quello dei beni pubblici. La transizione ecologica è uno di questi, la difesa (onnipresente nel discorso, triste segno dei tempi) un altro. Ma ce ne sono altri altrettanto importanti che il discorso purtroppo dimentica, in primo luogo il capitale sociale (sanità, istruzione, politiche per la coesione territoriale). Anche per i beni pubblici, giustamente, Draghi insiste sull’inadeguatezza della dimensione nazionale.
Il terzo pilastro è quello dell’approvvigionamento di input strategici, sia in termini geopolitici che di investimenti nelle nuove tecnologie. Qui è opportuno ricordare come la gestione comune degli acquisti dei vaccini abbia consentito da un lato di evitare la corsa all’accaparramento da parte dei paesi membri della Ue; dall’altro, di negoziare con le grandi case farmaceutiche da posizione di forza.
Ricette volte al passato
All’interno di questo quadro a mio parere largamente condivisibile, emergono una serie di criticità, in parte già evidenziate da Fabrizio Barca sul Fatto Quotidiano: lo spazio quasi inesistente lasciato a temi fondamentali come la già citata coesione sociale, come se lo stropicciato pilastro sociale dell’Ue fosse un fastidioso vincolo e non un’opportunità per ribadire la specificità del modello europeo, valorizzare competenze, aumentare la produttività (seguendo il suggerimento di Krugman).
O ancora, l’intenzione di competere sui mercati globali nello sfruttamento delle risorse (l’autonomia strategica) trascurando i problemi che questo pone in termini di depauperamento dell’ambiente. Infine, ma non da ultimo, una concezione della politica industriale novecentesca, incentrata sulla creazione di grandi conglomerati oligopolistici.
Dal discorso emerge che gli estensori del rapporto scelgono deliberatamente di trascurare tutta la letteratura recente, che sicuramente conoscono, sulla politica industriale. Una letteratura che evidenzia l’insufficienza del modello dei “campioni nazionali” e suggerisce politiche molto più articolate per sostenere progresso tecnico e aumenti della produttività.
Occorrerà ovviamente leggere il rapporto nella sua interezza; ma le anticipazioni contenute nel discorso di Draghi lasciano presagire un approccio in parte incoerente e sicuramente datato al tema delle politiche per la trasformazione strutturale.
Non solo ombre
Ma non sono tutte ombre. Oltre al contenuto, sul quale sperabilmente sarà data la possibilità di discutere e proporre approcci radicalmente diversi, Draghi delinea in modo preciso anche il contenitore, la creazione di strumenti europei.
È difficile non leggere nei tre pilastri la preconizzazione di una capacità di bilancio europea, un organo europeo per le politiche di bilancio e industriali. Per certi versi questo è l’aspetto più importante: se si crea uno strumento comune, l’utilizzo che se ne farà dipenderà dal processo politico e dalla capacità dei vari attori di far valere le proprie istanze. C’è da sperare che la proposta di creare una capacità di bilancio centrale sia messa nero su bianco nel rapporto che leggeremo in giugno.
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