L’evento politico di questo mese di settembre è senza dubbio stato la presentazione del rapporto Draghi sulla competitività; è un rapporto complesso e ricco di proposte, per forza di cose con molte luci e forse ancora più ombre, come ad esempio la quasi totale mancanza di attenzione alla conciliazione della transizione con la sostenibilità sociale.

Tuttavia, si tratta di un documento importante perché ha due meriti fondamentali, “di metodo” verrebbe da dire. Il primo, di ribadire che abbracciare la transizione ecologica non è un costo ma un’opportunità, l’ultima opportunità di fatto, per agganciare il treno della crescita da cui l’Europa si è staccata da due decenni almeno.

L’opzione di “fare del turismo il nostro petrolio” non ha nessun senso, e diventare il luna park del mondo è sinonimo di produttività stagnante e inevitabile declino.

È avvilente come questa evidenza fatichi ancora oggi ad imporsi tra le élite europee prigioniere del mito del bagno di sangue della transizione ecologica, mentre Cina e Stati Uniti si sono lanciati in una corsa a perdifiato per appropriarsi dei frutti della trasformazione delle nostre economie.

Il secondo merito del rapporto di Draghi è quello di militare per l’utilizzo di una pluralità di strumenti e di politiche pubbliche per rilanciare la crescita e la produttività.

Il Draghi degli anni d’oro, alfiere della superiorità dei mercati e orchestratore nei suoi vari ruoli di austerità, privatizzazioni e riforme strutturali, è quasi irriconoscibile in un rapporto che propugna l’intervento pubblico per orientare una trasformazione strutturale che certamente non può essere lasciata alla mano invisibile del mercato.

Certo, Draghi fustiga (giustamente) il sovrapporsi di regole nazionali ed europee che rendono impossibile la vita soprattutto delle piccole imprese; o ancora, auspica mercati dei beni e finanziari meno segmentati e più fluidi; ma allo stesso tempo, in molte delle sue proposte, abbandona con decisione il totem dell’efficienza dei mercati.

Le proposte

Gli esempi sono moltissimi e vanno dall’uso della regolamentazione agli incentivi, all’intervento diretto dello stato, con investimenti e misure protezionistiche: ad esempio, quando il rapporto suggerisce di abbandonare la semplicistica idolatria del libero commercio e di considerare la protezione di settori e industrie strategiche dal punto di vista geopolitico e/o economico; o quando riconosce che in alcuni settori le regole troppo strette a tutela della concorrenza impediscono la crescita delle imprese oltre la taglia critica che serve per ottenere economie di scala e guadagni di produttività.

O ancora, quando riconosce che senza l’effetto volano di un massiccio investimento pubblico sarà impossibile mobilitare le risorse private necessarie alla transizione ecologica e a recuperare il terreno perduto con Cina e Stati Uniti.

Una proposizione, questa, che per chiunque sembrerebbe quasi banale (come fa un’impresa a produrre e a fare profitti se mancano le infrastrutture per gli approvvigionamenti e per raggiungere i mercati?) ma che in alcuni circoli è sempre stata considerata eretica.

Ancora oggi si sente dire da alcuni partigiani dei tagli di bilancio che ridurre l’investimento pubblico non sarebbe un ostacolo alla transizione ecologica, per la quale ciò che veramente conta è l’investimento privato; anzi, quest’ultimo sarebbe addirittura danneggiato dalla concorrenza dello stato nel reperire i fondi sui mercati finanziari.

Una concezione ampiamente smentita dall’evidenza empirica e oggi anche da un controesempio di peso: molti colleghi economisti tedeschi attribuiscono il debolissimo tasso di investimento delle imprese tedesche proprio allo stato catastrofico delle infrastrutture materiali e immateriali del paese.

Gli investimenti e la transizione

Si potrebbero fare molti altri esempi di politiche pubbliche discusse dal rapporto. Ma qui vorrei concentrarmi proprio sul tema dell’investimento, che tra l’altro è stato uno di quelli più ripresi dalla stampa. Il rapporto stima in circa 800 miliardi annui (il 5 per cento del Pil europeo) le risorse da investire per far ripartire il motore grippato dell’economia europea.

Di questi, prendendo a riferimento lavori recenti della Commissione europea, si può stimare che un po’ più della metà debbano essere investimenti pubblici.

Il rapporto suggerisce tra le righe che il modo migliore per reperire una parte sostanziale di queste risorse sarebbe l’emissione di debito comune (il Diario Europeo se ne è occupato a più riprese) da destinare a progetti di investimento transnazionali, che consentirebbe in primo luogo di ovviare almeno in parte alla segmentazione dei mercati europei, giustamente fustigata da Draghi come una delle principali zavorre per l’economia europea; e poi, di fornire ai mercati finanziari dei titoli di debito sicuri e liquidi, favorendo la stabilità finanziaria e per questa via l’investimento privato.

Questa opzione è stata rigettata da esponenti prestigiosi dei governi dei paesi detti frugali, così in fretta da indurre a chiedersi se avessero avuto il tempo di leggere il rapporto.

Il problema e, ovviamente, che la transizione ecologica non può essere oggetto di scelta ma è una necessità, un vincolo. Rimane quindi, per quanto non ottimale, solo la strada di investimenti effettuati dai paesi membri (auspicabilmente coordinati da qualche istanza europea, come è stato fatto con il Next Generation Eu). Ora, anche il più virtuoso e bene intenzionato dei governi europei non potrà mai trovare tra le pieghe del bilancio tra il 2 e il 3 per cento del proprio Pil.

Allo stesso tempo, i blandi incentivi all’investimento pubblico presenti nel Patto di Stabilità sono semplicemente inadeguati per cui, se si rimane nel quadro delle regole europee, sarà inevitabile tagliare drasticamente la spesa corrente: pensioni, sanità, protezione sociale. Chiunque dica il contrario non è semplicemente credibile.

Cambiare le regole

Insomma, non c’è scelta. Si può fare un’operazione di verità e chiedere agli elettori europei se vogliono vedere il modello sociale europeo ulteriormente falcidiato, invece di metterli di fronte al fatto compiuto dei tagli allo stato sociale, come fino ad oggi si è fatto praticamente ovunque e con governi di ogni colore. Oppure, si cambiano le regole europee per escludere le spese d’investimento dal computo del disavanzo.

Le proposte in questo senso abbondano, e non ci si può più nascondere dietro a obiezioni tecniche, superabili in presenza della volontà politica.

A ben pensarci, il rapporto Draghi ha un terzo merito: quello di dire fin dall’inizio che l’Europa è all’ultima spiaggia. Sarebbe ora che se ne rendesse conto anche una classe dirigente che dall’Italia alla Francia, passando per la Germania e l’Ungheria, sembra ogni giorno più inadeguata e prigioniera di un autocompiacimento francamente incomprensibile.

© Riproduzione riservata