La strada per il rilancio dell’ex Ilva è ancora lunga, e Mittal per il momento non sembra disposta a farsi da parte, anche dopo le dichiarazioni del governo
L’informativa al Senato del ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso e il successivo incontro con i sindacati nella giornata di giovedì hanno segnato un punto di svolta sul futuro dell’ex Ilva. «Mittal è fuori», ha sintetizzato il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano uscendo da Palazzo Chigi dopo il vertice con i rappresentanti dei lavoratori.
La multinazionale indiana, che ancora detiene la maggioranza di Acciaierie d’Italia, all’inizio di questa settimana ha rifiutato di sottoscrivere l’aumento di capitale cedendo le quote di maggioranza a Invitalia (ad oggi azionista di minoranza al 38%). Un rifiuto che in teoria potrebbe aprire la strada all’amministrazione straordinaria, che riporterebbe l’acciaieria sotto il controllo pubblico, con un commissario nominato dal governo in attesa che investitori privati si facciano avanti. Ma la strada per il rilancio dell’ex Ilva è ancora lunga, e Mittal per il momento non sembra disposta a farsi da parte.
Il governo ha convocato i sindacati per il prossimo 18 gennaio e nel frattempo ha dato mandato ai legali di Invitalia di trovare una soluzione per uscire dall’impasse. Il rischio è che la faccenda si trascini a lungo nelle aule di tribunale.
Rischi legali
La proposta iniziale dei Mittal, quella di mantenere la gestione paritaria di Acciaierie d’Italia ma riducendo la quota di partecipazione (in sostanza scaricare sullo Stato gli oneri finanziari mantenendo il controllo decisionale) è stata bollata come «inaccettabile e non percorribile» dal ministro Urso.
Il socio privato ora si trova di fronte a due strade: quella del compromesso, accettando una buonuscita che lo Stato potrebbe essere disposto a offrire per risolvere la questione; oppure quella della battaglia legale, per far valere tutte le sue prerogative. Sulle spalle dei lavoratori.
Appetiti privati
In un modo o nell’altro è difficile che la questione possa essere risolta nel giro di una settimana, ed è altamente probabile che serva ulteriore tempo per giungere a un accordo che scongiuri la lotta nelle aule di tribunale. Intanto, lavoratori, sindacati e possibili acquirenti attendono sviluppi, e sono tutti concordi su una cosa: tocca al governo gestire il rilancio dell’ex Ilva. I privati immaginano tempi più lunghi prima di entrare nella compagine societaria.
Anche 2-3 anni, come ha dichiarato il presidente di Federacciai , Antonio Gozzi in una recente intervista a La Stampa. Gozzi conferma quanto dichiarato più volte da vari rappresentanti dei gruppi privati che potrebbero essere interessati: prima del risanamento, sia finanziario che ambientale, con l’adeguamento degli impianti alla normativa europea, noi non entriamo.
Tra i possibili acquirenti, oltre al già citato Gozzi, figurano Arvedi, il maggiore gruppo siderurgico privato italiano, e Marcegaglia, guidato dall’ex presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia.
Nessuno di loro, però, sembra disposto a intavolare una trattativa a questi termini, con stabilimenti decotti e quadro legale indefinito. Dovrà essere quindi lo Stato a mettere i due miliardi di euro necessari al riammodernamento degli impianti, gli stessi che hanno indotto Mittal a tirare i remi in barca. Una prospettiva tutt’altro che rassicurante per il futuro dell’acciaio italiano.
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