- Nel secondo trimestre del 2021, tramite i dati delle comunicazioni obbligatorie, si osserva una forte ripresa del numero di dimissioni volontarie, pari a circa mezzo milione di persone: 292mila avoratori e 191mila lavoratrici.
- Le transizioni da un lavoro all’altro tendono ad aumentare quando riparte la domanda di lavoro e, dopo il grande freddo pandemico, la domanda è ripartita ma in modo così distorto che certo non fa pensare ad un nuovo e dinamico mercato del lavoro.
- Nel 2021 l’occupazione è, infatti, cresciuta ma resta ancora distante dai livelli pre-Covid, soprattutto per quanto riguarda i dipendenti permanenti, mentre è fortemente cresciuta l’occupazione precaria che è già ritornata ai livelli del 2019.
Nel secondo trimestre del 2021, tramite i dati delle comunicazioni obbligatorie, si osserva una forte ripresa del numero di dimissioni volontarie, pari a circa mezzo milione di persone: 292mila avoratori e 191mila lavoratrici. L’incremento c’è, anche se in termini percentuali è molto diversificato in relazione al periodo preso a riferimento per il confronto. Infatti, rispetto al secondo trimestre del 2020 è del più 85 per cento, ma è un confronto difficilmente utilizzabile perché fa riferimento ad uno dei momenti più drammatici della pandemia in cui si è registrato un crollo delle dimissioni.
Più credibile è il confronto con il primo trimestre 2021, rispetto al quale l’incremento è sempre alto ma inferiore (più 37,8 per cento). È, però, sconsigliabile fare un confronto fra trimestri che hanno peculiarità diverse e che comunque sono entrambi del periodo pandemico.
Nel confronto col periodo pre-pandemico (secondo trimestre 2019) si osserva un incremento molto più contenuto (più 10,1 per cento). È probabilmente questo il riferimento più realistico, tenendo conto che delle dinamiche di crescita delle dimissioni erano già in atto anche precedentemente: nel 2018, sempre in riferimento al secondo trimestre, si registrava un più 14,8 per cento rispetto al 2017.
Le possibili spiegazioni
Un solo trimestre non può segnare una tendenza e quindi occorrerà aspettare le successive rilevazioni, così come al momento sono ancora troppo generici i dati sulle motivazioni dietro le dimissioni dei lavoratori.
Si può dunque, in attesa di approfondimenti più robusti, indicare soltanto alcune possibili ipotesi.
La prima è quella che le dimissioni possono riguardare diversi aspetti che la pandemia ha prodotto, sia dal punto di vista psicologico che della mobilità delle persone. Era, dunque, lecito aspettarsi nel 2021 un rimbalzo. Conta anche il fatto che la pandemia abbia prospettato alle persone la necessità di scegliere attività che garantiscano una maggiore sicurezza sanitaria.
La seconda ipotesi può essere, invece, legata al meccanismo del blocco dei licenziamenti, che nel secondo trimestre del 2020 era ancora totalmente in vigore, e a possibili incentivi all’uscita da parte delle imprese.
Un’ulteriore ipotesi è legata all’intensità della ripresa economica in atto nel 2021: visto dal lato dei lavoratori questo aspetto potrebbe segnalare, almeno in parte, la possibilità di ricollocarsi da imprese in difficoltà o con gli ammortizzatori in scadenza verso posti di lavoro considerati più sicuri.
Il problema
Le transizioni da un lavoro all’altro tendono ad aumentare quando riparte la domanda di lavoro e, dopo il grande freddo pandemico, la domanda è ripartita ma in modo così distorto che certo non fa pensare ad un nuovo e dinamico mercato del lavoro.
Nel 2021 l’occupazione è, infatti, cresciuta ma resta ancora distante dai livelli pre-Covid, soprattutto per quanto riguarda i dipendenti permanenti, mentre è fortemente cresciuta l’occupazione precaria che è già ritornata ai livelli del 2019.
Il possibile fenomeno può quindi essere determinato da una parte del settore produttivo, che è ripartito (così come mostrano i dati del Pil) come quantità di attività e con un consolidamento della sua qualità e che offre condizioni di lavoro mediamente più interessanti sia dal punto di vista professionale, remunerativo che per le condizioni di futura stabilità.
È possibile in questo caso ipotizzare che singole imprese cerchino anche tra gli attuali occupati, così come che la ricerca venga fatta anche da singoli lavoratori. Di converso, un’altra parte del sistema produttivo continua ad essere in difficoltà e ha problemi di prospettiva e invece di scommettere sull’innovazione continua a puntare sulla competizione di costo. In quest’ultimo caso, le condizioni del lavoro sono un fattore troppo spesso utilizzato e ciò spiegherebbe una parte della grande ripresa di lavoro precario, prevalentemente in basse qualifiche e per tempi di attività molto brevi. Una polarizzazione pericolosa che presuppone un possibile ulteriore restringimento della base produttiva.
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