Da mesi in Europa i sindacati guidano le proteste per difendere il potere d’acquisto dei salari. Più rare invece le proteste nelle nostre piazze. E anche gli aumenti in busta paga sono più bassi
L’Italia paradiso degli scioperi? Un territorio senza legge dove manipoli di lavoratori bivaccano sfaccendati con l’unico obiettivo di prolungare ferie e week end? L’immagine, a suo modo suggestiva, è stata rilanciata in questi giorni come arma di propaganda per delegittimare i sindacati, e i loro leader, in vista dello sciopero generale proclamato da Cgil e Uil.
Le accuse del governo, e in particolare di Matteo Salvini, non reggono però il confronto con la realtà dei fatti. Dati alla mano, nel nostro paese si sciopera molto meno rispetto a quanto accade entro i confini dell’Unione Europea, dalla Francia alla Germania, dalla Spagna fino all’Olanda e al Belgio.
In gran parte del continente, dopo una fase di relativa calma che si è prolungata per quasi tutto il decennio scorso, le proteste dei lavoratori si sono moltiplicate e in cima alla lista delle rivendicazioni c’era quasi sempre la stessa richiesta: salari più alti per compensare la perdita del potere d’acquisto causata dall’inflazione.
L’Europa protesta
Nei mesi scorsi, ma anche nel corso del 2022, le piazze delle grandi città europee si sono riempite di manifestanti come non accadeva da molti anni e l’adesione alle iniziative dei sindacati è stata massiccia, con ripercussioni pesanti anche per i servizi pubblici, dal trasporto aereo ai treni. Proprio in questi giorni, per dire, le ferrovie tedesche sono state costrette a tagliare centinaia di corse per via di un nuovo sciopero, l’ennesimo quest’anno.
A protestare, adesso, sono soprattutto i macchinisti, che tra l’altro chiedono la riduzione dell’orario di lavoro da 38 a 35 ore settimanali a parità di salario. È un secondo round che causerà gravi disagi ai viaggiatori, dopo mesi di disservizi per via di una serie di stop proclamati dal sindacato più rappresentativo dei ferrovieri, che ha infine ottenuto un aumento di 410 euro mensili con un una tantum di 2.850 euro esentasse.
In Francia invece, un mese fa, è andata in scena una mobilitazione che ha coinvolto trasporti, scuola, sanità e altri servizi pubblici. Aeroporti chiusi, stazioni deserte, ospedali in funzione solo per le urgenze. E questo è stato solo l’ultimo episodio di una lunga serie di scioperi, dalle raffinerie alla logistica ai bancari, che in una prima fase hanno avuto come principale bersaglio il presidente Emmanuel Macron e il suo piano di riforma delle pensioni, ma nella maggior parte dei casi le rivendicazioni comprendevano anche la richiesta di salari più alti.
Fuori dai confini dell’Unione Europea, anche la Gran Bretagna ha visto aumentare di molto il numero delle proteste, con i ferrovieri che solo una settimana fa hanno raggiunto l’accordo che ha messo fine a una raffica di astensioni dal lavoro che si è prolungata per 18 mesi, con tutti i disservizi del caso per i cittadini.
Che cosa dicono i numeri
Fin qui i casi più recenti, quanto basta, però, a smentire la strampalata tesi di una sorta di eccezione italiana in un panorama europeo dove gli scioperi sarebbero rari e sempre ingabbiati da norme molto rigide che ne regolano lo svolgimento. Ci sono anche i numeri, però, che mettono a confronto la situazione nostrana con quella dei principali Paesi europei e, dati alla mano, si scopre che in Italia la conflittualità non è certo superiore a quella che si registra altrove.
Le statistiche dell’Ocse segnalano che nel decennio tra il 2008 e il 2018, in Italia sono stati registrati in media 42 giorni di sciopero all’anno ogni mille lavoratori, contro i 76 della Spagna e i 112 della Francia. I dati ufficiali si fermano al 2018, almeno per quanto riguarda i confronti internazionali. Una recente ricerca dell’Osservatorio Cpi dell’Università Cattolica ha rilevato che il numero di scioperi proclamati in Italia nel settore dei servizi pubblici è molto diminuito nel biennio 2021 – 2022 in confronto al periodo tra il 2015 e il 2018. Da un picco di circa 2.500 nel 2017 fino ai 1.500 del 2022.
Tanti? Pochi? Dipende dai punti di vista. L’Italia però detiene un record tra i maggiori Paesi industrializzati che dice molto sull’efficacia delle lotte sindacali per tutelare quantomeno le condizioni salariali dei lavoratori. Secondo l’Ocse, nella Penisola i salari reali, cioè al netto dell’inflazione, sono calati del 7,5 per cento rispetto al periodo precedente la pandemia.
In Germania la flessione non supera il 3,2 per cento, in Spagna siamo al 4 per cento e in Francia si registra addirittura un incremento dell’1,5 per cento. Questi calo generalizzati spiegano in parte l’ondata di proteste che ha percorso l’Europa nei mesi scorsi, in una fase in cui, tra l’altro, anche la crescita economica ha fatto segnare quasi ovunque una brusca frenata.
Al contrario, ed è sempre l’Ocse a segnalarlo, le grandi economie occidentali hanno visto aumentare mediamente del 21 per cento i profitti aziendali tra il 2020 e l’inizio del 2023. Altrove in Europa le proteste dei sindacati hanno raggiunto nella gran parte dei casi l’obiettivo che si erano prefissi, cioè incrementi sostanziali dei salari con un recupero quasi completo della perdita di potere d’acquisto causata dall’inflazione.
In Italia invece, soprattutto tra i lavoratori del settore pubblico, gli aumenti in busta paga sono stati ottenuti solo in queste settimane, con grave ritardo e spesso insufficienti per compensare l’aumento del costo della vita. Nel settore privato, invece, si sono moltiplicate le grandi aziende che hanno destinato parte dei loro profitti ai dipendenti sotto forma di una tantum anti-inflazione. Ferrari, Eni, Intesa, per citarne solo alcune. Niente scioperi, qui. Il premio è piovuto dall’alto.
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