Viaggio nella manifattura, dove l’export verso gli Usa vale tra il 5 e il 20 per cento del fatturato. E con l’instabilità che tira a livello internazionale è scarso lo spazio per nuovi mercati di sbocco
Dalla Pianura padana agli Appennini tosco-emiliani fino alle colline venete, le geometrie territoriali disegnano un quadrilatero di distretti industriali e piccole imprese che contribuiscono a fare dell’Italia il secondo paese, dopo la Germania, per esportazioni dell’Unione europea negli Stati Uniti.
Storie di territori e di aziende che si amalgamano con quelle di chi ci vive, produttori e consumatori. E che ora, con palpabile preoccupazione, stanno alla finestra a guardare che succede. Restano in attesa di vedere come andrà a finire il botta e risposta sui dazi alle merci europee tra il presidente Usa Donald Trump e un Vecchio continente che tenta con affanno un colpo di reni per difendersi.
L’export in forse
«Sono preoccupato sì», dice a Domani Armando Menicacci, titolare del lanificio Idealtex di Montemurlo, provincia di Prato, «perché noi lavoriamo il 95 per cento per il mercato americano, già dobbiamo sostenere i costi dell’energia perché ci appoggiamo ad aziende energivore, e, se vengono applicati anche i dazi, con tutte le spese che dobbiamo sostenere, la vedo brutta».
La Idealtex è una micro impresa, attiva per il 5 per cento in Italia, Spagna, Francia, «però insomma diciamo piccole cose, il grosso delle commesse è per l’America». Si trova nel «bacino del tessile. Io ho una produzione a chilometro zero, nel giro di un chilometro sono tutti miei fornitori». E continua: «Siamo una piccola azienda, siamo sette persone, in caso di dazi penso proprio che ci potrebbero essere conseguenze occupazionali perché, benché sia un’azienda trentennale la mia, se mi manca il mercato americano è un grosso problema».
E anche i dipendenti stanno tutti «con le spalle ristrette per capire quello che potrà succedere». Giusto ieri il segretario della Uil, Pierpaolo Bombardieri, in occasione dei 75 anni del sindacato, ha detto che i dazi di Trump potrebbero portare a una perdita di 50mila posti di lavoro.
Zaia il pragmatico
Lo ha capito anche il governatore del Veneto Luca Zaia che, contrariamente al segretario della Lega, Matteo Salvini, tifoso a testa bassa di Donald Trump, invita i paesi europei, e le forze di cielo e terra, a scongiurare la sciagura dei dazi, che sarebbero un dramma soprattutto per le piccole e medie imprese venete contoterziste e manifatturiere.
Nel Padovano, Katia Pizzocaro, socia e amministratrice della Paoul, azienda di Villatora di Saonara attiva nella creazione di scarpe da ballo, racconta: «Esportiamo in tutto il mondo, ma la quota di export negli Usa è una delle più importanti, circa l’11 per cento nel 2024, e quindi i dazi potrebbero avere sicuramente un impatto, perché l’obbligo doganale è un onere che ha la sua incidenza, sia sul pubblico che sul partner. Quello che perderemo negli Stati Uniti andrà recuperato in altri paesi, anche se di questi tempi è difficile portare a casa ordini. È impegnativo e bisogna trovare strategie nuove per non perdere fatturato».
Secondo Confartigianato Imprese, le regioni più esposte ai dazi americani – per ora solo minacciati – sono la Lombardia (con il 20,5 per cento del totale nazionale), l’Emilia-Romagna (16,3 per cento), la Toscana (15,6 per cento) e il Veneto (10,9 per cento). Seguite da Piemonte (7,9 per cento) e Lazio (5,1 per cento). Andrea Vacchi Suzzi è il titolare e consocio della Cel Components di Granarolo dell’Emilia, in provincia di Bologna.
L’azienda ha 50 dipendenti e produce materiali compositi e pannelli sandwich alleggeriti. Esportano il cinque per cento dell’intero volume d’affari negli Stati Uniti. «Visto che l’export verso gli Usa non è così elevato, l’incidenza sul fatturato non sarebbe drammatica, ma sicuramente si ridurrebbe di molto la nostra competitività su quel mercato».
Ma il contraccolpo potrebbe venire considerando che i clienti europei della Cel Components a loro volta esportano negli States. Insomma, il timore è subire i dazi indirettamente: «Sono relativamente preoccupato rispetto a un contraccolpo indiretto. Tengo le orecchie dritte».
L’indotto trema
Un po’ per tutte le aziende, la preoccupazione riguarda anche l’incidenza che i dazi avrebbero sull’indotto, che le coinvolgerebbe indirettamente. Sauro Bettoli è il presidente di Arco Trasporti di Cotignola, nel ravennate.
L’azienda, una cooperativa con 130 dipendenti, è attiva nel settore della logistica, principalmente trasporto. «I clienti finali americani, sicuramente, chiederanno ai fornitori italiani lo sconto, vista la gabella dei dazi. E a sua volta il fornitore italiano chiederà a noi trasportatori di ridurre i costi di spedizione», teme l’esportatore.
A Lissone, provincia di Monza, la Tornova di Massimo Sala produce componenti torniti per la meccanica ed esporta negli Usa l’equivalente del 2-3 percento della produzione. «Noi siamo fornitori della componentistica, da dazi avremmo più che altro un contraccolpo indiretto. I miei clienti sono aziende europee produttrici di prodotti finiti nei settori oleodinamico, pneumatica, telecomunicazione che vendono anche negli Usa, come filiera potremmo avere dei contraccolpi. Sono un pochino preoccupato certo».
Sud colpito
A risentirne sarebbero, in particolare, i settori con la maggiore presenza di micro e piccole imprese «nella moda, mobili, legno, metalli, gioielleria e occhialeria che nel 2024 hanno esportato negli Usa prodotti per 17,9 miliardi di euro, con una crescita delle vendite del 3,9 per cento tra gennaio e settembre dello scorso anno», spiega Eugenio Massetti, bresciano, presidente di Confartigianato Lombardia.
E non c’è solo il Centro-Nord a correre il rischio. Secondo uno studio dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) per il Sole 24 Ore, «complessivamente la quota Sud dell’export italiano destinato agli Usa si attesta al 12,4 per cento».
In alcuni settori, come automotive, elettronica e informatica, il contributo raggiunge percentuali del 28,4 per cento. Nell’agrifood, l’export si attesta al 22,6 per cento e per la farmaceutica è pari all’11,2 per cento. Da notare poi che, sugli energetici, oltre il 64 per cento delle esportazioni italiane verso il mercato statunitense registra come provenienza le tre regioni di Sardegna, Sicilia e Puglia.
© Riproduzione riservata