- Le nostre democrazie subiscono da oltre trent’anni una continua torsione che rischia di spaccarle. Lo sviluppo del secondo dopoguerra è stato figlio di un modello sociale inclusivo e civile che gli anni Ottanta hanno frantumato.
- Negli ultimi trent’anni è sempre sceso il potere del lavoro e cresciuto quello delle imprese, aumentando le disuguaglianze.
- Due esempi negano in radice il vagheggiato capitalismo democratico degli anni Novanta: la maggiorazione del potere di voto di certe azioni da un lato, dall’altro la crescente influenza dei grandi fondi di Private Equity e degli Hedge Fund.
Una società è tanto più civile quanto più costruisce meccanismi capaci di ostacolare il dominio del più forte, conservando al contempo la libertà; in economia essi devono anche promuovere l’efficienza, da cui vengono produttività e sviluppo.
Come disse il grande John Maynard Keynes, il vero rebus è come conciliare la triade di efficienza, libertà ed equità.
Il mondo cambia sotto i nostri occhi con una gradualità che ottunde la percezione dei mutamenti. Occorre riflettere su quanto sta accadendo in finanza, dove sempre più prevalgono condizioni di grande favore per pochi privilegiati.
Torsione democratica
Le nostre democrazie subiscono da oltre trent’anni una continua torsione che rischia di spaccarle; in effetti, si sta truccando la bilancia.
Lo sviluppo del secondo dopoguerra è stato figlio della ricostruzione e di un modello sociale inclusivo e civile, che il clima invalso dagli anni Ottanta con i successi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher ha però frantumato.
Da allora è sempre sceso il potere del lavoro e cresciuto quello delle imprese, di cui i media spesso si fanno acritici megafoni. Aumentano così le disparità di reddito e patrimonio. Sull’onda dei “trenta gloriosi”, negli anni Novanta si sperava nel capitalismo democratico, ma l’idea stessa è sparita di scena. Era forse ingenuo sperare che fosse proprio la finanza, da sempre riserva di caccia dei forti, a perseguirla.
Poche cose danno conto del mutamento dei rapporti di forza fra stati e imprese come il raffronto, certo statisticamente fuorviante, fra il valore di mercato dei colossi del Big Tech e i titoli di debito emessi dagli stati.
Amazon e Apple sono arrivate a capitalizzare 3mila miliardi di dollari l’una, quanto il debito della Repubblica italiana! Sono solo la punta di diamante e riflettono la sempre più invasiva capacità del denaro di influire sulla società Usa. L’Europa sta un po’ meglio, almeno finora.
Strapotere dei fondi
Per venire ai fatti, ecco, fra i tanti possibili, due esempi che negano in radice il vagheggiato capitalismo democratico: la maggiorazione del potere di voto di certe azioni da un lato, dall’altro la crescente influenza dei grandi fondi di Private Equity (Pe) e degli Hedge Fund (Hf), che dovrebbero proteggere (hedge) da grandi perdite, a fronte di minori guadagni quando il mercato sale.
Alcuni azionisti possono essere privilegiati moltiplicando i loro diritti di voto se restano tali per un dato periodo, o creando classi di azioni differenti; vie diverse, una stessa meta.
Dare più diritti di voto a chi tiene in portafoglio le azioni, in teoria, premia chi investe nel lungo termine; in pratica, rafforza i soggetti controllanti. Dopo la sua introduzione nel 2014, il voto maggiorato s’è molto diffuso in Italia, ma gettonatissime sono giurisdizioni più gradite ai controllanti, come l’olandese, che li moltiplica anche per dieci.
La sfruttano gruppi che furono italiani, come Mediaset e Exor, dove, con il 52 per cento di possesso, il gruppo Agnelli-Elkann disporrà dell'85 per cento dei voti. Ciò dissocia il potere di decisione dall’impegno patrimoniale, con distinti saluti all’allineamento di interessi fra stakeholder, su cui a vuoto si gorgheggia.
Le classi di azioni differenti piacciono molto ai Big Tech Usa; anche lì alcuni soci sono più uguali degli altri e i loro diritti di voto valgono, per Meta-Facebook, e Alphabet-Google, dieci volte quelli degli altri animali della fattoria.
Queste clausole proteggono i fondatori da attacchi sgraditi, e non hanno scadenza. Non so quanto rassicuri sapere che Zuckerberg potrebbe continuare a gestire Meta, anche settantenne, magari dalla Polinesia; ai soci potrà anche andar bene, ma preoccupa che intanto egli, come i sodali del Big Tech, conservi nei forzieri fra le nuvole una messe di dati tale da far crepare d’invidia gli autocrati tesi a spiare i sudditi, o i malvagi capi della Spectre rivali di James Bond!
Stranamente non se ne curano tanti, ossessionati da complotti inverosimili. Alcuni Big Tech svolgono poi essenziali funzioni pubbliche negli Usa, dall’invio di razzi nello spazio all’archiviazione di dati.
Moltiplicare i voti di alcuni deforma il capitalismo, che sfugge ai doveri validi per gli altri, piegando la legge ai propri comodi. Quei gruppi si sono presi i nostri dati e ne disporranno a piacimento, se la Ue o altri non li fermano. Non è una questione di governo societario, è soprattutto una rilevante questione politica.
Aumentano le disuguaglianze
Nel libro Il capitale nel XXI secolo, Thomas Piketty indaga sull'aumento delle disuguaglianze dovuto alle differenze fra la crescita dei patrimoni accumulati e dei redditi da lavoro. Anche i rendimenti patrimoniali differiscono molto, in funzione soprattutto delle dimensioni; da sempre chi più ha, riceve le migliori proposte e può meglio valutarle.
Entrano qui in gioco i grandi Pe e Hf, riservati a investitori extralarge; restano fuori da quella porta i piccoli, incapaci di valutarli adeguatamente e di sopportare le conseguenze della loro illiquidità. La novità del XXI secolo è che l’accesso esclusivo dei grandi avviene in forza di norme volte a proteggere i più deboli; la protezione ha però un costo, riflesso nei minori rendimenti che essi conseguono.
Pe e Hf hanno acquisito grande peso nelle economie occidentali; lo simboleggia il fatto che, negli Usa, il più grande operatore immobiliare è un Pe, e lo sono sette degli otto maggiori datori di lavoro (dati 2019).
Questi fondi, cresciuti smontando i conglomerati per concentrarsi su singoli business, sono divenuti conglomerati grandi come quelli che hanno smontato; oggi essi sono al sicuro perché, come i grandi mammiferi in cima alla catena alimentare, possono essere attaccati solo da omologhi.
Essi nacquero negli anni Ottanta, quando il fondo Kkr (che ha appena presentato una “quasi offerta” su Tim), comprò e smembrò Nabisco, grande conglomerato Usa che guardava altezzoso ai “barbari alle porte”; questi però entrarono nella città pappandosela.
Tali fondi dispongono di grandi masse di denaro non ritirabile ad libitum, quindi stabile; i normali fondi d’investimento sono invece più cautelativi nelle valutazioni, sottoposti come sono all'alea giornaliera dei riscatti.
Ciò accresce il peso di Pe e Hf, in grado di valutare di più le quotate; di qui le Offerte pubbliche che spesso presentano per ritirare dal mercato imprese sottovalutate. I Pe oggi hanno asset per 18mila miliardi di dollari, provenienti anche dai grandi fondi pensione; solo indirettamente, tramite questa componente, i “piccoli” accedono a quei rendimenti extra.
Pe e Hf hanno arricchito enormemente i patrimoni delle grandi università Usa; i rendimenti del 2021 vanno dal 33 per cento di Harvard al 56 per cento del Mit. Non è privo di effetti che a quelle università acceda di preferenza il famoso 1 per cento.
Conflitti d’interesse
Il modus operandi di tali fondi è caratterizzato da cospicui conflitti d’interesse con gli investitori e da grande opacità, che negli Usa hanno spinto la Securities & Exchange Commission a proporre incisive norme per regolarli.
Essi vedono le imprese come mucchi di attivi, da comprare grazie ai debiti – utili a far salire i rendimenti caricandoli sulle stesse imprese – per poi venderle nel minor tempo possibile.
Della sostenibilità tanto vantata a parole non c’è traccia nei fatti e il grosso dei loro rendimenti viene dalla deducibilità fiscale degli interessi e dall’illiquidità, ambedue con esiti sociali negativi; oberate di debiti le imprese spesso crollano, abbandonate al loro destino da Pe e Hf, mentre l’illiquidità, col maggior rischio conseguente, taglia fuori i piccoli investitori.
Accade così che i denari dei fondi pensione, investiti in Pe e Hf, finiscano per spogliare le imprese, costrette a licenziare il personale a cui essi dovranno pagare la pensione.
La disuguaglianza intanto cresce, in un circolo perverso che, oltre un certo livello, distrugge il tessuto di qualsiasi società. Quei dipendenti licenziati spesso non votano, o eleggono presidente Donald Trump.
Questi sono solo due, poco evidenti, fra i tanti modi con cui una mano, ben visibile a chi voglia vederla, pesa su un piatto della bilancia, alterando gli esiti. Dobbiamo capire che truccare il gioco ci fa scivolare su un piano inclinato. Resta poco tempo per fermare la caduta e risalire, cambiando a fondo le regole che fomentano le disuguaglianze; ne va della stessa sopravvivenza della democrazia liberale.
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