Nella fase politica che si è aperta con le elezioni europee il tema dominante è quello della “normalizzazione” della politica di bilancio e della riduzione del debito pubblico. Dimenticati la transizione ecologica, i servizi pubblici degradati, la crescita a singhiozzo, si sente dire, da uomini politici e da economisti, che ogni bambino nasce con decine di migliaia di euro di debito pubblico sulle spalle, o ancora che, “come ogni bravo padre di famiglia”, il governo dovrebbe bilanciare i conti e non spendere più di quello che guadagna, cercando di ripagare i propri debiti. Entrambe le affermazioni, apparentemente frutto di buonsenso, sono in realtà fallaci.

La chiave della sostenibilità

In primo luogo, contrariamente al padre di famiglia e a tutti noi, lo Stato non “muore” e può quindi indebitarsi indefinitamente fin tanto che riesce a pagare gli interessi sul debito e trova qualcuno disponibile a finanziarlo. Anche il Fondo Monetario Internazionale, dopo la pessima gestione della crisi del debito greca, oggi sostiene che per avere la sostenibilità, non occorre tanto ridurre il debito quanto assicurarsi di riuscire a generare (con la crescita economica) sufficienti entrate fiscali per poter pagare ogni anno il flusso di interessi.

Questo spiega perché paesi come il Giappone abbiano vissuto per decenni con un debito superiore al 200 per cento del Pil senza che nessun investitore ritenesse che questo fosse insostenibile. Ora, se guardiamo alle spese per interessi in percentuale del Pil queste sono certo aumentate negli ultimi anni, a causa di tassi più elevati.

Ma restano molto più basse di quanto non fossero nei primi anni Duemila, e questo non solo per i paesi “virtuosi” come la Germania, ma anche per quelli più fragili come l’Italia. I tassi reali di interesse poi, vale a dire depurati dall’inflazione, restano vicini allo zero se non addirittura negativi.

Oggi, insomma, i fondamentali non sono preoccupanti. Solo una crisi di fiducia potrebbe creare problemi di finanze pubbliche, con i mercati che potrebbero rifiutarsi di rifinanziare il debito, o pretendere, per farlo, interessi molto più alti. Ma è tutto da dimostrare che il modo migliore per garantirsi la fiducia dei mercati sia quello di ridurre indiscriminatamente il debito, soprattutto in una fase di crescita stagnante.

Anche perché, e qui veniamo al secondo luogo comune, se è vero che ogni bambino nasce con decine di migliaia di euro di debito sulle spalle, lo stesso bambino si ritrova anche con decine di migliaia di euro di capitale pubblico all’attivo, infrastrutture, scuole, ospedali e via di seguito. Ed è proprio su questo capitale pubblico che dovrebbe concentrarsi oggi l’attenzione.

Un capitale pubblico fuso

Infatti, negli scorsi decenni l’investimento pubblico si è contratto in quasi tutti i paesi avanzati, e conseguentemente il capitale pubblico si è degradato. Il Fondo Monetario Internazionale ha costruito delle stime del capitale pubblico che disegnano un quadro impietoso. Se si prende il valore medio degli anni Settanta e Ottanta come riferimento, il capitale pubblico in percentuale del Pil è oggi inferiore quasi ovunque, in alcuni casi, come in Germania e in Olanda, in modo spettacolare.

L’ossessioneperilmitodellaparsimonia

Un capitale pubblico degradato vuol dire ovviamente meno servizi, ma anche meno crescita e meno investimento privato. Per anni, le politiche economiche dei paesi avanzati si sono fondate sull’idea che occorresse ridurre la velatura dello Stato, riducendo spesa e tassazione, perché si credeva che il motore della crescita, l’investimento privato, fosse disincentivato da una spesa pubblica troppo elevata.

Una convinzione che la crisi del debito sovrano si è incaricata di mandare in soffitta. I programmi di rientro dal debito imposti dalla Troika alla Grecia e agli altri paesi in crisi non hanno “liberato” la crescita ma, al contrario, hanno fatto collassare l’economia e reso il debito ancora meno sostenibile.

Proprio in seguito a questa sconfessione, gli economisti hanno riiniziato ad interrogarsi sulla dimensione dei moltiplicatori, che misurano l’impatto della finanza pubblica sulla crescita e sulle altre variabili macroeconomiche.

Dal 2010 in poi i lavori empirici si sono moltiplicati, mostrando tra le altre cose che l’investimento pubblico fa generalmente da volano a quello privato e addirittura che gli investimenti verdi e la spesa sociale sono particolarmente benefici per il Pil, sfatando un altro mito duro a morire, vale a dire che la transizione ecologica e le politiche redistributive sono un costo e non un’opportunità per crescere.

Ma non si tratta solo di provare ad arrestare il processo pluridecennale di degrado del capitale pubblico. Occorre fare molto di più. Infatti, da preoccupante il quadro diviene drammatico se spostiamo l’attenzione verso la trasformazione strutturale della nostra economia resa necessaria dalla transizione verde. In questo campo i bisogni di investimento sono colossali e il ritardo che l’Unione europea accumula nei confronti di Stati Uniti e (soprattutto) Cina cresce quotidianamente (il Diario Europeo ne ha parlato più volte).

Il divario

Non è sorprendente che il divario con i nostri competitors si stia ampliando: negli Stati Uniti e in Cina vengono investite somme ingentissime nella ricerca pubblica e privata, e viene attuata una politica industriale a tutto campo che, dagli incentivi alle imprese fino alle misure protezionistiche, ha l’obiettivo di finanziare la transizione ecologica e la ricostruzione del tessuto industriale; intanto, da noi ancora serpeggia l’opinione che la transizione ecologica sia un costo e non un’opportunità di sviluppo e che, comunque, essa non debba necessariamente essere appannaggio dello Stato.

Molti, troppi, economisti e uomini politici, ritengono che oggi di fatto, più che di investimento pubblico e politica industriale, per la transizione ecologica sia solo necessario il completamento del mercato unico. Insomma, l’Unione europea, che dal Green Deal al Chips Act, pasando per il Next Generation EU e il Fit for 55 sembra darsi come priorità l’ambizioso obiettivo di essere leader di una transizione ecologica non più rinviabile, nei fatti continua a non mettere il portafoglio dove sono i proclami. Infatti, con l’eccezione di Next Generation EU (di cui siamo tutti giustamente fieri, ma che comunque rimane quantitativamente relativamente modesto se confrontato per esempio con l’Inflation Reduction Act americano), tutti gli altri programmi consistono principalmente in riallocazioni di fondi da altre poste di bilancio, mobilitando pochissime risorse nuove.

Investire per crescere

Insomma, la letteratura più recente da un lato mostra come il capitale pubblico si sia progressivamente ma inesorabilmente degradato negli scorsi decenni; dall’altro concorda sul fatto che un rilancio dell’investimento pubblico avrebbe un effetto duraturo sulla crescita economica e quindi favorirebbe la sostenibilità delle finanze pubbliche. La conseguenza è tanto ovvia quanto, nel surreale dibattito attuale, dirompente: oggi la priorità non dovrebbe essere quella di ridurre il debito, ma di ripristinare uno stock di capitale pubblico adeguato.

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