Se l’Europa vuole stare in piedi, deve trovare la capacità di spendere. Se non faremo questo, finiremo progressivamente indietro le altre grandi economie mondiali e perderemo, a poco a poco, il nostro benessere e forse anche i nostri diritti. Perderemo quello che siamo. Sta già accadendo. L’economia tedesca è già in stagnazione e con lei rallenta l’Europa tutta. E anche in Germania prende forza l’estrema destra.
Occorre spendere per ammodernare le infrastrutture, per sostenere la conversione ecologica, la quale non può reggersi solo sulle gambe della regolazione ma (ma come avviene negli Stati Uniti) ha bisogno di investimenti e sostegno pubblico, per sviluppare un’efficace difesa comune, per finanziare la ricerca; e occorre spendere per mantenere il nostro welfare, dalla sanità all’istruzione, e per gestire l’inevitabile arrivo di migranti e profughi, da est e da sud, con adeguate politiche di inclusione.
Il ritorno del Patto di stabilità, dal 1° gennaio 2024, solo leggermente ammorbidito, va contro tutto questo. Tanto più in una situazione di stagnazione economica come quella che ci aspetta: politiche di riduzione di bilancio andrebbero fatte nelle fasi espansive, non in quelle recessive: l’«austerità espansiva» si è rivelata fallimentare, anche per la riduzione del rapporto debito/Pil, come ha riconosciuto Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera. I singoli stati avranno le mani legate.
Ma se i singoli stati non potranno investire, dovrebbe farlo almeno l’Unione Europea. Questo è avvenuto con il Next Generation EU, nel 2020, durante la pandemia. Deve ripetersi, diventare strutturale. È la via per l’Europa federale. Negli Stati Uniti i singoli stati hanno bilanci limitati ma è il governo federale che investe, spende, innova: con Biden lo sta facendo.
L’Unione Europea può investire sia indebitandosi, con gli eurobond (introdotti appunto nel 2020), sia creando una base fiscale comune, cioè trovando proprie risorse. Ad esempio, con il contrasto ai paradisi fiscali interni all’Unione, quindi armonizzando le tassazioni sulle multinazionali.
O anche introducendo una tassa su una piccolissima minoranza di cittadini più ricchi, anche solo lo 0,5% (uno ogni 200!), come proposto di recente dai gruppi di sinistra del Parlamento Europeo. Da questi due provvedimenti si potrebbero recuperare, ogni anno, in Europa, centinaia di miliardi di euro: sono interi Pnrr, da utilizzare per garantire il benessere, i diritti, l’innovazione, e per mantenere un ruolo di primo piano nella competizione globale.
Questa è la partita più importante, oggi, da cui dipendono i destini dell’Italia. Il nostro interesse nazionale è legato all’Europa: che deve diventare più coesa, più federale, più equa. Tutto il contrario di quel che vuole la destra italiana. La quale, non a caso, continua a ostacolare ogni seria politica di redistribuzione e di investimento a livello europeo, pure in un quadro di drammatica assenza di risorse per i servizi essenziali, demonizzando fra l’altro ogni possibile patrimoniale, anche minima.
La destra mostra così di essere inadeguata a difendere l’interesse nazionale e incapace di fare gli interessi dei più deboli (e le due cose vanno insieme). Possono essere però le forze di opposizione a portare avanti questa bandiera, a partire dal Pd di Elly Schlein che mostra più consapevolezza su questo, e insieme alle forze sociali: battersi per un’Europa federale, che spenda e che investa, redistribuendo ricchezza. Questo può e deve diventare il tema centrale delle elezioni europee.
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