L’esecutivo vuol spendere due miliardi per affiancare il fondo Usa Kkr nell’acquisto della rete dal gruppo di tlc. Le banche sospettano che i soldi della tassa sull’extragettito servano per Tim, e non per famiglie in difficoltà
Nei giorni in cui il governo s’inventa un balzello extra per prelevare un paio di miliardi dai bilanci delle banche, Giorgia Meloni trova il modo di spendere la stessa cifra per tenere sotto il cappello dello Stato la rete telefonica di Tim. Sarà un caso, ma certo è una coincidenza che stupisce. Tanto più se si pensa che Matteo Salvini va spiegando da una settimana che la tassa sugli extraprofitti bancari frutterà risorse da destinare alle famiglie e ai lavoratori.
Dopo giorni di voci e indiscrezioni, giovedì in serata è arrivato l’annuncio che riporta a zero il bilancio agostano del dare e dell’avere per il Mef di Giancarlo Giorgetti. Il Tesoro affiancherà il fondo statunitense Kkr nella società che entro settembre presenterà un’offerta vincolante a Tim per comprare l’infrastruttura di rete del gruppo guidato dall’amministratore delegato Pietro Labriola.
Il piano del governo
Il comunicato del ministero spiega che la quota del governo potrà arrivare fino a un massimo del 20 per cento. A questo punto i conti sono presto fatti. La valutazione degli asset in vendita, quella su cui si basa la proposta preliminare degli americani, è pari a 21 miliardi, somma a cui si arriva sommando i 10 miliardi di nuovo capitale garantito dagli acquirenti agli 11 miliardi debiti di Tim che verranno trasferiti alla NetCo.
Il socio pubblico è quindi pronto a sborsare fino a 2 miliardi (il 20 per cento di 10 miliardi) per quella che appare come una sorta di nazionalizzazione di ritorno della vecchia Telecom, ceduta ai privati nel 1997. La nuova cordata patriottica prevede anche l’intervento del fondo F2i, partecipato da banche, fondazioni bancarie, casse previdenziali.
Potrebbe essere della partita con una piccola quota (meno del 5 per cento) anche la Cassa depositi e prestiti (Cdp), già azionista di Tim con il 10 per cento. L’obiettivo finale sarebbe quello di mettere insieme un 35 per cento in mano a soci con targa italiana. Quanto basta per costituire una cosiddetta «minoranza azionaria di blocco» che obbligherebbe il socio principale a venire a patti su tutte le decisioni più importanti.
Cordata sovranista
Nelle intenzioni dei promotori dell’operazione lo schema ricalca quello già all’opera in Terna e Snam, altre due società che gestiscono infrastrutture strategiche (elettricità e gasdotti) in cui il socio pubblico ha conservato solo un 30 per cento circa del capitale.
Nel caso della costituenda NetCo, però, l’azionista privato sarebbe uno solo e per di più di un Paese, gli Stati Uniti, che non fa parte dell’Unione Europea. Verrebbe quindi appianato l’ostacolo golden power, visto che l’azionista pubblico resta determinante nell’azionariato. D’altra parte, non è scontato il via libera di Bruxelles, che si concentrerà sulla questione aiuti di stato.
Al piano annunciato giovedì ha lavorato a lungo Gaetano Caputi, alto burocrate di lungo corso (già direttore generale della Consob), arruolato dal governo come capo di gabinetto della presidente del Consiglio. Per Meloni, l’italianità della rete telefonica è un’idea fissa che precede di molto il suo ingresso a Palazzo Chigi. Un’ambizione costretta a fare i conti con le risorse limitate del bilancio pubblico e con i paletti stringenti dell’Antitrust.
L’ipotesi di partenza, infatti, ruotava attorno a Cdp, che sommando la controllata Open Fiber alla rete di Tim, sarebbe diventata l’architrave del riassetto in chiave sovranista. Ben presto però è diventato chiaro che la soluzione avrebbe incontrato grandi difficoltà a superare le obiezioni dell’authority della concorrenza.
I debiti di Tim
Adesso si vota pagina, e se il piano andrà in porto, Meloni potrà dire di aver difeso con successo l’italianità della rete di tlc. Allo stesso tempo anche Tim conta di ricavare dall’operazione le risorse indispensabili a garantirsi un futuro.
Di questo passo, infatti, l’azienda guidata da Labriola rischia seriamente di restare presto senza benzina. Nei primi sei mesi del 2023 il gruppo ha visto crescere di altri 800 milioni il proprio indebitamento netto e non produce abbastanza cash per far fronte ai nuovi investimenti e agli oneri finanziari, in continuo aumento per via del rialzo dei tassi. La vendita della rete frutterebbe capitali freschi per 10 miliardi a cui vanno sommati altri 10 miliardi di minore indebitamento. Una volta ceduta l’infrastruttura, compresa quella internazionale con il marchio Sparkle, a Tim resterebbero i servizi commerciali, diventerebbe un semplice venditore di accessi telefonici.
Labriola conta di farcela, perché una volta dimagrita, la società potrebbe contare su margini operativi (Ebitda) fino a 3 miliardi, quanto basta per far fronte a oneri finanziari e investimenti. In verità il piano dell’amministratore delegato appare ad alcuni analisti forse troppo ottimistico, soprattutto in un settore in cui la concorrenza spietata ha provocato una forte diminuzione dei margini di profitto. E non è affatto scontato neppure il via libera dei sindacati, perché è quasi certo che il riassetto porterebbe tagli di personale tra i 40 mila dipendenti del gruppo. Di fatto, però, la mossa del governo rafforza la posizione del manager, visto che la strategia messa a punto mesi fa sembra stia procedendo secondo la tabella di marcia prevista.
Un primo via libera al piano Meloni è infatti già arrivato da Vivendi, principale azionista di Tim con una quota del 23,7 per cento. L’azionista francese ha già perso oltre 3 miliardi nella sua avventura italiana e finora ha ostacolato tutte le soluzioni che si sono via via prospettate giudicando troppo basse le offerte per la rete. Anche Vivendi però non ha più carte da giocare, se non quello di farsi carico di un aumento di capitale che la costringerebbe a sborsare altri soldi.
E allora la partita con i francesi potrebbe giocarsi anche su un altro tavolo, quello televisivo. La holding controllata da Vincent Bolloré è alla ricerca di una via d’uscita per vendere la sua partecipazione del 23 per cento in Mediaset, su cui rischia altre ingenti perdite.
La questione potrebbe essere risolta al tavolo della politica, visto che gli eredi di Silvio Berlusconi controllano la tv del biscione e allo stesso tempo, grazie ai loro crediti milionari a Forza Italia, garantiscono la sopravvivenza finanziaria di un pezzo governo. Insomma, affari e politica, in un intreccio che va dai telefoni alla tv, passando per le banche. E per sbrogliarlo non basteranno le ambizioni sovraniste di Giorgia Meloni. E forse neppure i due miliardi messi in campo finora.
© Riproduzione riservata