Il Fmi stima che gli Stati Uniti manterranno una crescita superiore al trend nel triennio 2023-2025. L’opposto di quanto stimato per l’Eurozona, dove la crescita aumenta nel triennio, ma rimanendo una frazione di quella americana. Il quesito più rilevante è se questo divario è ciclico o strutturale. Purtroppo, appare strutturale
Negli ultimi quattro anni abbiamo avuto la pandemia, l’esplosione dell’inflazione, disavanzi pubblici da tempi di guerra, il rallentamento della Cina, e i rischi geopolitici. Lecito domandarsi se nel prossimo anno ci sarà un ritorno alla normalità degli ultimi venti, con una ripresa della crescita, rientro dell’inflazione al 2 per cento senza rischi di recessione, tassi reali in discesa, e una graduale riduzione dei disavanzi pubblici.
Lo scenario contenuto nel World Economic Outlook del Fondo monetario internazionale (Fmi) presenta un quadro di crescita non inflazionistica nel 2025, con il raggiungimento dell’obiettivo della crescita dei prezzi al 2 per cento senza rischi di recessione. Ma il mondo viaggerà a tre velocità diverse.
Il Fmi stima che gli Stati Uniti manterranno una crescita superiore al trend nel triennio 2023-2025 anche se in rallentamento da un insostenibile 2,9 per cento, al 2,2 l’anno prossimo, sostenuta dai consumi e investimenti privati, e da un incremento di produttività. Una previsione per il 2025, inoltre, che il Fmi ha appena rivisto al rialzo. L’opposto di quanto stimato per l’Eurozona, dove la crescita aumenta nel triennio, rispettivamente dello 0,4, 0,8 e 1,2, ma rimanendo una frazione di quella americana. Anche il dato europeo è stato appena rivisto, ma al ribasso. Un divario di crescita tra Eurozona e Stati Uniti che tende dunque ad allargarsi ulteriormente.
Germania, Francia e Italia
All’interno dell’Eurozona le tre maggiori economie segnano a loro volta dinamiche diverse: la Germania cresce nel triennio ma arriva appena allo 0,8 per cento nel 2025, dopo due anni di recessione; la Francia è stazionaria all’ 1,1, mentre l’Italia, con una crescita dello 0,7 e 0,8 rispettivamente per quest’anno e il prossimo nonostante i fondi del Pnrr, non tiene il passo con il resto d’Europa, che a sua volta non tiene quello degli Usa.
Rivisti al ribasso inoltre il dato per il 2025 per tutti e tre le maggiori economie europee. Quanto alla Cina, continua il lento e graduale rallentamento del suo tasso di crescita (5, 4,8 e 4,5 per cento nel triennio 2023-25) nonostante le politiche adottate dal governo per superare la crisi immobiliare e rilanciare i consumi, e che si stanno rivelando inefficaci.
Il quesito più rilevante è se questo divario tra Europa e Stati Uniti è ciclico o strutturale, ovvero se è destinato a perdurare e aggravarsi nel tempo. Purtroppo, appare strutturale. Una prima ragione è spiegata nel rapporto European Innovation Policy (dello European Policy Analysis Group) e che viene chiamata «trappola della tecnologia media».
Il rapporto mostra come la spesa pubblica per ricerca e sviluppo (R&D) in percentuale del Pil sia uguale negli Stati Uniti come in Europa (0,7 per cento). La grossa differenza sta nella spesa per R&D delle imprese, l’1,2 per cento del Pil per le europee, che è la metà rispetto al 2,3 di quelle americane.
Ma è soprattutto nella qualità della spesa che risiede la maggiore differenza: mentre il 90 per cento dell’R&D americana è nell’alta tecnologia (come software, hardware, computer services, elettronica, aerospaziale e difesa, biotecnologia, farmaceutica), questa rappresenta solo la metà in Europa, che invece investe in settori a "media tecnologia” (come auto, chimica, alimentare, beni per la persona, beni e servizi di consumo, meccanica). La combinazione di minori spese per R&D e l’allocazione del capitale in settori a “media tecnologia” perpetuano un gap di produttività, che tende ad autoalimentarsi. La trappola consiste quindi nella cristallizzazione della struttura produttiva europea, che a sua volta pregiudica la capacità di innovare e crescere.
Ricerca e sviluppo
Un dato del rapporto lo mostra chiaramente: le prime tre imprese americane per R&D venti anni fa erano due società automobilistiche, Ford e GM, e una farmaceutica, Pfizer; dopo dieci, due erano diventate tecnologiche, Intel e Microsoft, e una farmaceutica, ma diversa, Merck; l’anno scorso tutte e tre le società erano tecnologiche, Microsoft, Meta e Google, e solo la prima appariva nella classifica di dieci anni prima.
In Europa le prime tre per R&D venti anni fa erano, come negli Stati Uniti, due automobilistiche, Mercedes e Volkswagen, e il conglomerato Siemens; dopo dieni anni tutte e tre erano legate al settore automobilistico, ancora Mercedes e Volkswagen, più Bosh; le stesse tre che ritroviamo l’anno scorso. Spendere meno in R&D e per di più in settori in declino, impedisce l’innovazione in Europa, riduce la competitività e in ultima analisi è la ricetta per il declino. Un punto chiaramente esposto nel Rapporto Draghi, ma che non sembra fare presa sulla classe dirigente europea; men che meno su quella italiana.
Stagnazione cinese
Il secondo fattore di freno per l’Europa è costituito dalla Cina. La stagnazione dei consumi cinesi agisce da freno sulle esportazioni europee in quello che per molte imprese rimane uno dei principali mercati di sbocco: per esempio, nel settore automobilistico Cina e il resto dell’Asia contano per circa il 30 per cento medio dei ricavi di Porsche, Mercedes e Bmw, o di una multinazionale come L’Oreal; un quinto dei ricavi di società tecnologiche come Siemens e Airbus, o chimiche come Basf; oltre il 40 per cento per la moda, come Lvmh, Kering, Moncler, Prada.
Il trend negativo della domanda interna spinge le imprese cinesi a indirizzare la loro capacità inutilizzata verso le esportazioni, in primis l’Europa, in quanto l’economia americana è molto meno integrata di quella europea.
Il terzo fattore di freno è un modello economico basato sulle esportazioni a discapito dei consumi privati, che ora si scontra con l’espansione cinese; e che subirebbe un altro contraccolpo se vincesse Donald Trump alle prossime elezioni visto il suo intento di imporre dazi alle importazioni dall’Europa: per esempio, il mercato americano conta per circa il 40 per cento dei ricavi di Campari, Buzzi, Pirelli, e Prysmian; il 30 di Ferrari, Leonardo, e Interpump; o l’oltre 50 per cento di Stellantis, tanto per citare alcune tra le più note aziende italiane.
La politica fiscale
La politica fiscale costituisce un altro un vento contrario per l’Europa: nel suo Fiscal Monitor il Fmi ipotizza che lo straordinario disavanzo pubblico americano pari al 7,6 per cento del Pil si ridurrà nel 2029, ma rimanendo al livello storicamente elevato del 6 per cento; mentre stima un maggior rigore nell’Eurozona, con un disavanzo complessivo che si riduce dal 3,1 al 2,7 nel 2029, con l’Italia che lo riduce al 3,1 e la Germania addirittura allo 0,5.
Tenuto conto della necessità di promuovere l’innovazione in Europa e la ristrutturazione del sistema produttivo verso l’alta tecnologia, è lecito chiedersi se la differente politica fiscale tra Stati Uniti ed Eurozona non costituisca un ulteriore elemento che allarga il divario di crescita.
Sempre secondo il Fmi, l’aggiustamento fiscale italiano avverrebbe prevalentemente con una riduzione della spesa pubblica di 2,6 punti percentuali di Pil di qui al 2029: un dato preoccupante per la qualità dei servizi pubblici che è un fattore di crescita della produttività troppo spesso trascurato.
Un quadro simile emerge se si guarda allo scenario economico che ci si attende con gli occhi del mercato. Le stime di consenso prevedono che utili e ricavi delle società quotate dell’Eurozona crescano l’anno prossimo rispettivamente del 9 e 4 per cento, rispetto al +15 e +6 di quelle americane: anche secondo il mercato, dunque, ci sarà crescita senza rischi di recessione; ma con le società dell’Eurozona che non tengono il passo di quelle americane per via della «trappola della tecnologia media».
Lo si può capire meglio guardando alla redditività del capitale delle società quotate, attesa per il 2025: 21 per cento è la redditività delle società americane, in forte aumento rispetto al 17 medio del quinquennio 2015-2019; molto più elevato del 12,5 per cento delle società dell’Eurozona, rispetto al 10 per cento degli anni pre-Covid.
Uno scenario di crescita non inflazionistica per il 2025, dunque, senza rischi di recessione, ma con un preoccupante divario tra Stati Uniti ed Eurozona, che tenderà ad allargarsi ulteriormente; e che dovrebbe preoccuparci se non vogliamo pregiudicare il nostro benessere futuro.
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