- La similitudine principale tra gli interventi armati ai confini dell’“impero russo” è che essi avvengono su territori altamente strategici per l’energia.
- Cecenia e Daghestan erano e sono zone di passaggio di oleodotti e gasdotti, così come lo è l’Ucraina.
- Ciò corrobora la tesi secondo cui la guerra attuale altro non è che un mezzo per proteggere le vie di esportazione dell’energia russa.
L’invasione russa assomiglia a vicende viste in passato e risveglia scenari di guerra che è utile ripercorrere allo scopo di capirne le ragioni e prevederne gli esiti. Putin ha messo in campo una all out war, con l’esercito russo che ha dispiegato forze, si potrebbe dire, “d’altri tempi”. Carri armati, stormi di elicotteri, artiglieria, razzi, a farla da padrone sono gli strumenti bellici di più di mezzo secolo fa, anche se leggermente aggiornati.
All’atto dei primi tentativi di resistenza, di guerriglia dietro le prime linee delle orde russe, qualcuno ha accostato ciò che avviene in Ucraina a quanto è avvenuto in Afghanistan.
In effetti le colonne di carri russi che oggi attraversano l’Ucraina assomigliano a quelle che hanno attraversato Kabul. Ieri come oggi è possibile prevedere la reazione. Allora il capo del Kgb Andropov aveva sul tavolo un rapporto che non lasciava dubbi: gli afghani avrebbero scelto la guerra di resistenza. Breznev non ne aveva tenuto conto e aveva ordinato l’invasione. Era il 27 dicembre 1979. Oggi è difficile immaginare che l’intelligence russa non abbia calcolato il rischio di una resistenza armata diffusa.
La Prima guerra cecena
In un’altra più recente e altrettanto sanguinosa azione militare, la Prima guerra cecena scatenata da Boris Eltsin dopo la dichiarazione di indipendenza da parte della Cecenia, i russi erano convinti di poter schiacciare facilmente la resistenza, ma si erano trovati ben presto in grave difficoltà, con gran parte dei soldati di leva mal preparati e poco organizzati davanti a una guerriglia tenace. Per più di due anni la Prima guerra cecena è stata un bagno di sangue, uno shock indimenticato per gli uomini forti di Mosca, tra cui c’era l’emergente Vladimir Putin.
Nonostante il tentativo di trattati di pace Russia-Cecenia, le Brigate internazionali islamiche hanno invaso il Daghestan riaprendo il conflitto. Sono stato testimone, nel 2000, degli aspri combattimenti, al confine montagnoso tra Azerbajan, Daghestan e Cecenia, in un viaggio-reportage per gli speciali del Tg1 della Rai (L’oro del Caspio). A quell’epoca l’esercito, già guidato da Putin, era stato rapidamente modernizzato, professionalizzato e reso più efficiente.
Nel frattempo, la resistenza cecena si era islamizzata attraendo foreign fighters e inaugurando una terribile serie di attentati suicidi che hanno portato la morte anche nelle strade di Mosca. Solo nel 2009 le operazioni militari in Cecenia si sono concluse con l’instaurazione di un governo filorusso.
La similitudine principale tra gli interventi armati ai confini dell’“impero russo” è che essi avvengono su territori altamente strategici per l’energia. Cecenia e Daghestan erano e sono zone di passaggio di oleodotti e gasdotti, così come lo è l’Ucraina. Ciò corrobora la tesi secondo cui la guerra attuale altro non è che un mezzo per proteggere le vie di esportazione dell’energia russa. Ieri come oggi, Putin dimostra di non tollerare la perdita di controllo in quei territori di frontiera e di voler mantenere il monopolio delle vie di esportazione del gas.
La resistenza armata
Nell’ipotesi di una guerra prolungata in Ucraina, molto dipende ovviamente dai colloqui che oggi prendono il via al confine con la Bielorussia. è purtroppo possibile trovare altre somiglianze con la Cecenia, dove la guerra si è concentrata dentro la capitale Grozny.
La capitale cecena è stata praticamente rasa al suolo. La resistenza accanita e imprevista dei ceceni ha prodotto una reazione russa sconsiderata con bombardamenti aerei e un prezzo pesantissimo pagato soprattutto dalla popolazione civile.
La lunga guerra che ne è scaturìta, la prima combattuta da Putin presidente, indica quanto fosse reattiva già allora la Russia non tanto alla richiesta di indipendenza delle ex repubbliche sovietiche, quanto a non compromettere il controllo delle vie di uscita del gas del Caspio, di cui allora la Cecenia era un fulcro.
Prova ne è ciò che è avvenuto in Azerbaijan. Anch’esso autoproclamatasi indipendente dal 1991 ma con un presidente Heydar Aliyev, che proveniva dagli stessi ranghi dell’ex Kgb e di Putin, un fattore chiave per comprendere e condividere gli interessi dei russi che, infatti, non si sono opposti all’indipendenza. Oggi, nella pura tradizione oligarchica, il presidente in Azerbaijan è suo figlio Ilham Aliyev.
In questa logica di condivisione si inserisce l’accordo russo sul gasdotto che da Baku raggiunge le coste pugliesi, uno dei primi gasdotti a passare al di fuori dal territorio russo. La Russia invece continua a controllare il proprio impianto da Baku a Grozny e sino al terminale sul mar Nero di Novorossijsk, con un bypass anche sul territorio georgiano. Novorossijsk è il terminale dove, tra l’altro, arriva anche il gas kazako dell’impianto Eni di Kashagan.
In sintesi la Cecenia, poco affidabile, ha subito l’invasione e la guerra, all’Azerbaijan filorusso è stata concessa l’autonomia. Il Caucaso intero, nel frattempo, è tornato a essere territorio di indiscussa influenza russa tanto da far giocare a Putin il ruolo di pacificatore nelle tensioni tra Azerbaijan e Armenia sui territori contesi del Nagorno-Karabakh e, più recentemente, nel ricompattare il regime filorusso di stretta osservanza anche nella super potenza energetica del Kazakistan.
La geopolitica energetica
Mentre si moltiplicano i commenti sulla irrazionalità del comportamento di Putin, può aiutare riflettere su quali siano gli interessi nel complesso gioco dell’accesso alle fonti energetiche. Nella guerra delle pipeline negli ultimi vent’anni, è stata costante la contrapposizione tra gli interessi russi nel controllare le vie dell’esportazione di energia e di conseguenza anche i prezzi, e quelle occidentali che cercano accessi diretti bypassando i territori russi o sotto la loro influenza.
Da qualunque punto di vista la si veda, la crisi Ucraina va letta anche in questa chiave: uno degli hub più importanti di distribuzione del gas russo. Basti pensare che sino al 2006 i due terzi di tutti i ricavi di Gazprom provenivano dalle vendite di gas che attraversa l’Ucraina, attraversamento che ancora oggi genera tasse di passaggio (transit fee) per il 4 per cento del Pil ucraino.
Utile anche ricordare la disputa russo-ucraina del 2006 quando la stessa Unione europea si era schierata al fianco della Russia e contro l’Ucraina che, dirottando illecitamente una parte del gas russo per i propri consumi, aveva determinato una crisi energetica.
Le cose sono molto cambiate prima con il Nord Stream 1, che ha dirottato il gas russo portandolo direttamente in Germania. Oggi 1/3 del gas russo destinato all’Europa passa da lì, producendo un mancato ricavo di ben 720 milioni di fee di transito per l’Ucraina.
Nord Stream 1 e 2
Inoltre, proprio questo inverno, il Nord Stream 2, il grande sogno putiniano finanziato da Gazprom con 10 miliardi di euro per il trasporto del gas direttamente dalla Russia, sotto il mar Baltico sino alle coste nord della Germania, è diventato realtà. Non un semplice raddoppio della capacità del Nord Stream 1, ma un progetto dalle vaste conseguenze geopolitiche.
Nord Stream 2 raduna tra gli oppositori un vasto fronte internazionale occidentale che va dai Repubblicani texani ai Verdi tedeschi che lo considerano un pericoloso mezzo di restaurazione dell’Impero sovietico. Da settembre il gasdotto è pronto, con il gas già in pressione nei suoi quasi 1.300 chilometri di lunghezza.
Manca solo il timbro della Commissione europea e della Germania. Gli Stati Uniti, sono passati da frasi minacciose come «cosi alimenterete ogni anno in miliardi di dollari la bestia russa» a quelle del segretario di Stato americano Blinken che ha riconosciuto il Nord Stream nel giugno 2021 come un “fatto compiuto”.
L’Ucraina dunque ha molto a che fare con il Nord Stream 2 che, a regime, porterebbe per la prima volta la totalità di gas russo destinato all’Ue fuori dai gasdotti che passano sul suo territorio azzerando i suoi ricavi. Il presidente Zelenzky, prima della guerra, aveva espresso forte contrarietà alla scelta della Germania di sostenere il progetto.
Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha tenuto sul tema la stessa linea di Angela Merkel che aveva già affermato, d’accordo con il presidente americano Biden e gli altri membri del G7, che in caso di azioni militari in Ucraina, il Nord Stream 2 sarebbe stato sospeso. Le parole contano: sospeso, non annullato.
Ora che la guerra è arrivata come si ricompongono gli interessi in gioco? Quanto bastano i 625 miliardi di valuta pregiata accumulata da Putin in questi anni a mantenere in piedi un’economia colpita dalle sanzioni? I prossimi mesi con il picco di gas e energia richiesto da case e fabbriche europee come influenzeranno le strategie di Bruxelles? Gli europei sono perfettamente consapevoli, lo dice esplicitamente una relazione di politica estera del 2018: «Nella storia recente nessun altro stato ha usato la sua ricchezza energetica per perseguire un’agenda offensiva, ed è stato sospettato di farlo, tanto quanto la Russia».
La ripresa del Nord Stream 2 potrebbe essere la carta da giocare? In generale leggere in filigrana gli interessi geostrategici del gas e saperli usare come tiranti può essere una valida leva per rimettere al più presto Putin al tavolo di una trattativa di pace.
Duilio Giammaria, autore di Seta e Veleni, racconti dall’Asia Centrale (Universale economica Feltrinelli), ha viaggiato a lungo in Kazakistan realizzando documentari e reportage per gli speciali del Tg1 della Rai.
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