Secondo la premier già nel 2024 si ridurrà il peso degli interessi da pagare sui titoli di stato. Ma i documenti ufficiali del governo dicono il contrario: oneri in aumento almeno fino al 2026
L’inflazione rallenta. Poca cosa, per ora, ma in dicembre, come ha segnalato ieri l’Istat, il costo della vita è aumentato dello 0,2 per cento, che diventa lo 0,6 per cento su base annuale, un decimo di punto percentuale in meno rispetto a novembre. Di questo passo, proiettando nell’arco di dodici mesi il dato mensile, l’indice dei prezzi farebbe segnare un incremento del 2,4 per cento nel 2024. Un bel progresso rispetto al 2023, che si è chiuso, informa l’Istat, al 5,7 per cento. L’anno prima, nel 2022, era andata ancora peggio: il boom dei prezzi energetici aveva trainato l’inflazione fino all’8,1 per cento.
Queste buone notizie, però, non bastano a sgombrare l’orizzonte dalle nubi, nubi finanziarie, che ancora gravano sul futuro prossimo. La grande incognita, quella su cui si esercitano da mesi gli analisti, riguarda l’andamento dei tassi d’interesse. Un dato di fondamentale importanza per i privati cittadini perché determina, per esempio, il costo dei mutui per comprar casa. Non solo. I tassi rappresentano una variabile decisiva anche per i nostri conti pubblici.
Il peso del debito
Un paese come l’Italia, oppresso da un debito pubblico di 2.870 miliardi, il 140 per cento del Pil, è costretto a bruciare ogni anno decine di miliardi per pagare gli interessi sui titoli di stato che vende agli investitori di tutto il mondo, a cominciare dai risparmiatori nostrani. Se l’inflazione torna finalmente negli argini, anche il costo del denaro cala e quindi diminuiscono gli oneri per il bilancio pubblico. Proprio questo è lo scenario ipotizzato due giorni fa in conferenza stampa da Giorgia Meloni. «In questo anno – ha detto testualmente la premier – si può immaginare una riduzione dei tassi d’interesse che liberebbe diverse risorse da pagare sul debito italiano».
Le previsioni del governo
Purtroppo, anche in questo caso, Meloni ha quantomeno peccato d’ottimismo. In primo luogo perché l’andamento prossimo venturo del costo del denaro, che è legato alle decisioni della Bce, appare al momento tutt’altro che certo. D’altra parte, anche ipotizzando che i tassi imbocchino con decisione una china discendente, ci vorrà molto tempo, almeno un anno, ma forse di più, prima che il calo produca effetti concreti sul bilancio pubblico. Una previsione, quest’ultima, che è stata messa nero su bianco dai documenti ufficiali del governo di Roma, da ultimo la Nadef, la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza.
Nelle carte del Tesoro, pubblicate in autunno, si legge che il peso degli interessi passivi, quelli pagati sui titoli di stato, nel 2024 arriverà al 4,2 per cento del Pil contro il 3,8 per cento del 2023. La crescita proseguirà anche nei due anni successivi, toccando il 4,3 per cento e il 4,6 per cento del Pil, rispettivamente nel 2025 e nel 2026. Queste previsioni di fonte governativa tengono conto del calo dell’inflazione che già alla fine del 2024 dovrebbe avvicinarsi a quota 2 per cento.
Nonostante questo sviluppo positivo, la Nadef dà per certi “progressivi aumenti della spesa per interessi” tra il 2024 e il 2026, dovuti “all’incremento del costo del debito sulle nuove emissioni”. Meloni, quindi, viene smentita dalle carte del governo che presiede. Riassumendo, l’inflazione diminuisce, il costo del denaro pure, ma gli oneri sui titoli di stato non smettono di crescere. Il motivo è semplice. Tra il 2022 e il 2023 il Tesoro ha collocato decine di miliardi di Btp con scadenze dai 3 ai 30 anni. Nel solo 2023 sono stati piazzati 43,5 miliardi di Btp a tre anni, 47 miliardi a cinque anni, 59 miliardi a dieci anni, giusto per citare le emissioni di valore più elevato. Questi titoli offrono rendimenti in linea con il costo del denaro nell’ultimo biennio e continueranno a garantirli anche nei prossimi anni, fino scadenza, anche se nel frattempo l’inflazione avrà fatto marcia indietro.
Speranze deluse
È ancora troppo presto, quindi, per cantare vittoria. La diminuzione del costo del denaro produrrà effetti concreti sul bilancio pubblico non prima del 2027. Le speranze di Meloni, quindi, sono destinate ad andare deluse. Tanto più che anche nel breve termine l’incertezza regna sovrana sui tempi con cui le banche centrali, a cominciare da quella europea, prenderanno atto del calo del costo del denaro e si decideranno a dare un taglio ai tassi. Neanche i più ottimisti tra gli operatori si azzardano a pensare che una prima sforbiciata possa arrivare prima di aprile. La prudenza di Francoforte sembra giustificata dal fatto che in Europa l’inflazione è in forte calo rispetto all’anno scorso, ma non ha ancora imboccato con decisione la strada dei ribassi.
Proprio venerdì 5 Eurostat ha comunicato che nell’Eurozona a dicembre l’indice del costo della vita è risalito al 2,9 per cento su base annua contro il 2,4 per cento di novembre. In Germania i prezzi sono aumentati del 3,8 per cento rispetto al 2,3 di novembre, in Francia è del 4,1 per cento contro il 3,9. Secondo gli analisti, questi rialzi sono destinati a essere riassorbiti già in questo mese, ma vanno interpretati come una conferma che l’inflazione non è ancora domata del tutto.
C’è il rischio concreto, quindi, che questi ultimi sussulti spingano i banchieri di Francoforte a muoversi con prudenza ancora maggiore. Il taglio dei tassi potrebbe arrivare solo a primavera avanzata e a farne le spese sarebbe in primo luogo il governo italiano che potrebbe veder crescere ancora a lungo il costo del proprio enorme debito pubblico.
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