Che il meccanismo non sia sostenibile nel medio termine è un fatto tanto evidente quanto secondario nel dibattito pubblico italiano. Nessuno ne parla ma a pagarne le conseguenze non saranno solo i giovani
Che il nostro sistema pensionistico non sia sostenibile nel medio termine è un fatto tanto evidente quanto secondario nel dibattito pubblico italiano. Periodicamente vengono lanciati segnali d’allarme, l’ultima è stata la relazione del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’Inps che, qualche settimana fa, ha ricordato a tutti come nel 2032 il bilancio dell’Inps avrà un buco di 20 miliardi.
Come in altre occasioni l’Istituto si è affrettato a chiarire che sono stime conosciute e che se ne tiene già conto nelle manovre che ne sosterranno i bilanci. Ma la coperta rimane troppo corta, e in continua riduzione. Le cause sono molteplici e l’indiziato principale è il cambiamento demografico che vede, da un lato, una costante riduzione delle nascite che continuerà nei prossimi decenni e che nel breve-medio termine non è aggredibile e, dall’altro, una aspettativa di vita che, nel nostro paese, è intorno agli 83 anni.
Questo significa che ci saranno, e già ci sono, meno persone che versano i contributi pensionistici per sostenere un gruppo di persone che vive più a lungo e quindi richiede, complessivamente, una quota di risorse maggiore. Si tratta di una sfida a cui sono chiamati la maggior parte dei paesi occidentali che stanno vivendo questa traslazione demografica con una concentrazione maggiore di coorti anagrafiche più mature.
Tasso di occupazione
Ma nel caso italiano si aggiungono almeno due elementi di criticità peculiari. La prima è il tasso di occupazione che, nonostante la crescita costante degli ultimi trimestri, è ancora inferiore di quasi 9 punti rispetto alla media europea e di 15 rispetto a un paese come la Germania che sta vivendo le medesime trasformazioni demografiche.
Un dato che si traduce in un numero basso di contribuenti che, in un sistema a ripartizione come il nostro, solo coloro che nella loro fase lavorativa coprono i costi delle pensioni di coloro che, contemporaneamente, si sono già ritirate dal mercato del lavoro. Il secondo elemento riguarda le condizioni di lavoro dei più giovani per i quali l’incidenza dei contratti temporanei che, tra i 15 e i 29 anni, sono di 6 punti superiori rispetto alla media europea sebbene anch’essi in calo.
A questo si aggiunge che in Italia i percorsi di studi terminano mediamente più tardi che negli altri paesi europei e che, dopo questi, il periodo di transizione tra scuola e lavoro è più lungo, tutti elementi che peggiorano le prospettive pensionistiche.
Siamo quindi di fronte a uno scenario variegato che tende a convergere verso una insostenibilità del sistema pensionistico sia nei suoi fondamentali di bilancio sia in relazione alle prospettive pensionistiche dei più giovani. Una situazione grave a tal punto che piccoli interventi palliativi risultano sempre più velleitari e che le generiche richieste di intervento di riduzione dell’età pensionistica difficilmente possono essere prese in considerazione.
Equilibrio demografico
Occorrerebbe invece muoversi su più fronti, cercando di innovare un paradigma che si è sviluppato sulle fondamenta di un welfare state in cui l’equilibrio demografico era molto diverso dall’attuale. Un primo elemento, che potrebbe sembrare banale senza esserlo, è considerare quanto la componente migratoria possa contribuire non solo alla crescita demografica ma anche ai contributi versati, e qui appare ancora più grave l’incidenza enorme di lavoro irregolare tra gli stranieri, oltre che tra i lavoratori italiani.
Ma c’è un livello più profondo che riguarda il cercare di rendere più sostenibile il lavoro anche oltre i sessant’anni, così che il permanere nel mercato del lavoro non sia automaticamente una condanna o un rischio della propria vita a causa di modelli organizzativi e processi produttivi incompatibili con condizioni fisiche che non sono quelle del primo accesso al lavoro.
La differenziazione delle situazioni, dei settori, delle mansioni e dei ruoli è quindi un elemento fondamentale da considerare e, da questo punto di vista, i lavoratori non sono tutti uguali e non hanno tutti avuto la medesima carriera lavorativa. In entrambi questi due fronti il ruolo degli attori delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva potrebbe essere centrale per la sua capacità di cogliere più da vicino determinate dinamiche e dovrebbe essere valorizzato e incentivato dallo stato in questa direzione.
Una partita nuova rispetto al passato, ma che potrebbe rivitalizzare le parti sociali nel tentativo di rispondere a problemi nuovi, urgenti e spesso lasciati sullo sfondo.
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