La legge di bilancio approvata dal governo si basa su previsioni poco credibili e impegni difficili da mantenere. Va impostata da subito una riduzione strutturale del debito. Anche tassando i patrimoni di chi ha di più
La Legge di bilancio sta facendo il suo difficile viaggio in Parlamento. Non è semplice prevedere come ne uscirà. L’aspetto più incerto sta nelle singole poste di entrata e uscita, cioè nella struttura qualitativa della legge.
I media continuano a dar per decise misure che poco dopo vengono proposte diversamente. Il giudizio di dettaglio deve attendere la fine dell’anno. Per quanto riguarda i numeri complessivi del deficit e del debito pubblici, dovrebbero restar confinati in quelli della Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (Nadef), del 27 settembre. Il problema è che quei numeri suscitano crescenti perplessità.
Numeri ottimisti
Fin da quando sono stati comunicati si poteva sospettare un loro eccessivo ottimismo. In particolare, la Nadef prevedeva la crescita del Pil, cruciale per la sostenibilità dei deficit e dei debiti, più brillante dei principali previsori internazionali. Diceva esplicitamente che nell’ultima parte dell’anno la congiuntura si sarebbe rafforzata; puntava a stimolare la crescita nel 2024 dall’1 al 1,2 per cento, quando, solo pochi giorni dopo, il FMI ufficializzava la sua previsione di 0,7 per cento.
Il rafforzamento congiunturale sta ora diventando vieppiù improbabile, la crescita zero del terzo trimestre ha deluso le aspettative, l’indice Pmi degli ordini delle imprese ha registrato in ottobre il settimo mese consecutivo di declino. Il peggioramento geopolitico, con la guerra in Palestina, crea crescente incertezza e frena gli investimenti, e forse anche i consumi. L’unica buona notizia è il calo dell’inflazione, che potrebbe incoraggiare le spese; ma potrebbe anche essere un segno di domanda durevolmente depressa. Se la crescita del 2024 fosse dello 0,7 per cento anziché, come nella Nadef, 1,2 per cento, il rapporto deficit/Pil sarebbe maggiore del già pericolosamente programmato 4,3 per cento e il debito/Pil aumenterebbe più di mezzo punto, invece di diminuire troppo poco, dello 0,2 per cento, come previsto. I segnali per i mercati finanziari e gli investitori esteri sarebbero negativi.
Altri elementi, oltre la crescita, potrebbero peggiorare il quadro della Nadef. La quale, ad esempio, non ragiona abbastanza sulla politica monetaria Usa, cruciale per quella internazionale. Se la Fed mantenesse a lungo i tassi elevati – come il presidente Powell non ha escluso nella conferenza stampa del 1° novembre – la congiuntura internazionale potrebbe contrarre ancor più la nostra crescita. I tassi europei, lo spread fra i nostri e quelli tedeschi e dunque l’onere degli interessi sui nuovi titoli da emettere, potrebbero risentirne. Le privatizzazioni preannunciate sono poco credibili e non permetteranno storni consistenti del nostro debito. Gli impegni elettorali insostenibili, finora disattesi in cambio di applausi per la moderazione del governo, rischiano di riemergere nella competizione fra i partiti ed esigere qualche spesa in più. Le note tecniche che stanno giungendo in Parlamento lungo l’iter del bilancio prevedono sempre più spese, per pensioni e superbonus.
C’è poi l’eroico 2026: il governo scrive che in quell’anno la politica di bilancio diverrà “lievemente restrittiva”: un eufemismo. Il deficit, al netto degli interessi sul debito, che nel 2025 è previsto passare da 0,2 per cento del Pil nel 2024 a un avanzo di 0,7 per cento, l’anno seguente vedrebbe un avanzo dell’1,6. Con qual tipo di provvedimenti? L’incomprimibilità di molte spese pubbliche e la poca probabilità di una forte diminuzione degli oneri del debito implicherebbero tagli violenti e lineari. In sostanza, c’è un rinvio di due anni di veri programmi per stare entro limiti di deficit tollerabili e, soprattutto, un rinvio nel disegno urgentissimo di riduzioni consistenti e ben programmate del debito/Pil. Ma i mercati e la Commissione europea lo accetteranno?
Come nel 2011?
La decantata “prudenza” finanziaria del governo Meloni pare affetta da miopia, difficile da giustificare insistendo che quel che conta è il programma di legislatura. Se confrontiamo la situazione attuale con quella che nel 2011 portò agli attacchi speculativi, alla caduta del precedente governo di centro-destra e al violento aggiustamento di Mario Monti, gli scenari politici interni e internazionali non paiono molto migliori. I litigi nella maggioranza ci sono anche oggi, con la piacevole eccezione – per ora – di un buon accordo fra il Ministro dell’Economia e la premier, mentre nel 2011 Tremonti e Berlusconi bisticciavano anche in pubblico. La geopolitica è molto peggiorata. Inoltre, è passata una dozzina d’anni di politiche monetarie eccezionalmente espansive e di propensione generale a sostenere i debiti pubblici: l’Italia ne è stata molto aiutata; è difficile pensare che altrettanto possa esserlo nel prossimo futuro, se non si aiuta da sola alla svelta, come fecero i sacrifici imposti dal governo tecnico di allora. In caso di seria caduta della credibilità finanziaria del nostro governo, sarebbe più arduo evitare l’intervento del “podestà straniero”, come lo chiamò Monti: un aiuto a condizione di aggiustamenti vigorosi ed eterodiretti, del famoso MES, da noi tanto avversato.
Poca trasparenza
L’elaborazione del bilancio, dalla Nadef al dibattito ora in corso, è poco trasparente: nella procedura, come ha ben documentato Vitalba Azzolini su questo giornale, ma anche nella sostanza. Campione della non trasparenza è il provvedimento principale: il taglio del cuneo fra salari netti e costo del lavoro, finanziato in deficit e solo per un anno. Ammesso che la Commissione lo accetti, avrà poco impatto perché provvisorio ed è un obbrobrio finanziario: se la misura non verrà invertita l’anno prossimo, con brutto effetto politico ed economico, promette un taglio permanente di entrate pubbliche finanziato in deficit. Anche la previsione di aggiustamenti notevoli fra tre anni, senza delineare una strategia per farli, è connotato di scarsa trasparenza. Il bilancio richiede un’accurata spending review: il governo lo ammette ma non dice nulla sul modo di farla, che dev’essere radicalmente diverso dai tentativi di scarso successo del passato, come notano, in un bell’articolo su La Voce, Montella e Mostacci, due studiosi dell’Istat. Poco trasparente è l’accenno fumoso a ingenti privatizzazioni, i confusi e contraddittori provvedimenti in discussione sulle pensioni nonché la scarsezza di spiegazioni su quello che molti considerano un grave stallo del Pnrr.
La trasparenza richiederebbe almeno: 1. dire per intero la verità sulla gravità della situazione finanziaria, 2. disegnare una riduzione strutturale del debito, graduale ma subito consistente, 3. impostare un ambizioso progetto di ristrutturazione, graduale ma radicale, sia delle spese che delle entrate, smettendo di parlare di riduzione dell’insieme delle imposte in un mondo che chiede ai governi di affrontare enormi nuove sfide molto costose, dall’ecologia alla sicurezza, dalla sanità all’istruzione.
Sul primo punto occorre credere che l’austerità prevista e affrontata con chiarezza rinfranca l’economia – e forse anche il consenso politico – più di quella che può giungere improvvisa a interrompere le illusioni. Sul secondo punto, va aggiunto che il debito deve decrescere subito anche in assoluto, indipendentemente da improbabili brillantezze del Pil.
Redistribuire il benessere
Molto di più andrebbe detto sul terzo punto. Cruciale è la redistribuzione del benessere a favore delle persone, imprese, regioni, più povere e più deboli. Riforme radicali delle spese e delle entrate dovrebbero tenerla in primo piano, ma ricorrendo molto meno a sussidi più o meno impliciti, aiuti e trasferimenti, soprattutto se finanziati in deficit. Dovrebbe invece contare sul fatto che fornire beni pubblici adeguati, anche se diretti a tutti i cittadini, arreca molto più benessere a chi è più debole, perché i forti possono supplire meglio all’istruzione e alla sanità pubbliche malfunzionanti, ai treni pendolari indecenti, e persino all’inefficienza della giustizia e della burocrazia, alla scarsezza di verde pubblico e di pulizia delle strade.
Chi sta meglio deve essere tassato di più, anche nel patrimonio, in modo progressivo, chiaro, prevedibile e stabile. E i proventi della tassazione devono convogliarsi nella produzione di beni pubblici preziosi per tutti ma, soprattutto, per chi è più fragile e bisognoso. Per questo la ristrutturazione qualitativa del bilancio pubblico deve essere il cuore della politica e del dibattito sulla finanza pubblica.
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