Malgrado le posizioni contrapposte tra paesi frugali e paesi spendaccioni (per utilizzare una dizione poco ortodossa ma comprensibile a tutti), è molto probabile che alla fine si riuscirà a trovare un compromesso per riformare il Patto di stabilità sulla falsariga della proposta della Commissione, con qualche correttivo per soddisfare le due parti.
Non ci sono alternative a una riforma, dato che siamo alla vigilia delle elezioni europee (giugno 2024). Infatti, se non ci fosse accordo, ci sarebbero solo due ipotesi: la prima prevede il ritorno del vecchio patto e sarebbe una vittoria dei paesi frugali. La seconda sarebbe il prolungamento della sospensione del patto almeno fino alla nomina della nuova Commissione (autunno 2024), e questa sarebbe una vittoria per i paesi spendaccioni.
In entrambe queste soluzioni ci sarebbe la vittoria di una delle parti, che non è mai consigliabile alla vigilia delle elezioni, perché darebbe luogo a una campagna elettorale fondata sulle rivendicazioni a favore o contro, che finirebbe per far partire malamente la prossima Commissione.
Il grande assente
La soluzione migliore resta dunque quella di un compromesso che scarichi gran parte delle responsabilità sulla Commissione europea della passata legislatura, ed è per questo che penso che il compromesso alla fine si troverà sulla base della proposta della Commissione.
In questo dibattito, tuttavia, c’è un grande assente: parlo della politica economica per l’Europa. Il Patto di stabilità e crescita, così come è concepito, manca della definizione di quelli che saranno, anno dopo anno, gli obiettivi di politica economica per l’Europa sulla base delle condizioni congiunturali del momento.
Esso è solo la somma degli auspicati comportamenti dei 27 paesi aderenti all’Unione europea, senza alcuna verifica della compatibilità delle politiche economiche nazionali, né della valutazione del loro effetto complessivo sull’economia dell’Europa.
Ma la somma delle politiche nazionali non è affatto una politica per l’Europa, e gli obiettivi di politica nazionali potrebbero essere tra di loro incompatibili, con il risultato di annullarsi vicendevolmente, così come è successo quando paesi con forti avanzi di bilancia dei pagamenti si sono ostinati a non perseguire incrementi di domanda interna, contribuendo a far fallire gli sforzi di riequilibrio dei paesi con posizioni negative nei conti con l’estero (e/o viceversa).
La politica fiscale
Così come concepita, questa somma delle politiche economiche nazionali rischia di portare a un risultato negativo, nel senso di ridurre le capacità di crescita delle economie europee, malgrado il Patto di stabilità sia anche un Patto di crescita.
Infatti, il Patto definisce essenzialmente i comportamenti dei singoli paesi in termini di politica fiscale, sicché la politica economica europea finisce per essere nient’altro che la risultante casuale della somma delle politiche di 27 paesi.
E, poiché il Patto impone soprattutto vincoli agli squilibri, questa risultante non potrà che essere una politica fiscale restrittiva qualunque sarà la situazione congiunturale europea.
Infatti, tutti i principali paesi, compresa la Germania, si trovano al momento con un debito pubblico superiore, di poco o di molto, al 60 per cento del Pil, il che si traduce, secondo le regole del Patto (vecchio o nuovo), in un invito a ridurre le spese e a contenere il disavanzo pubblico al fine di frenare la crescita del debito.
Il nodo della crescita
Certo, la proposta della Commissione che offre la possibilità per ogni paese di programmare in un lasso di tempo più esteso la riduzione degli squilibri (previa l’adozione di riforme strutturali che spesso si traducono anch’esse in restrizioni di domanda interna) attenua questa convergenza verso politiche fiscali restrittive, ma la proietta nel futuro, dando un connotato di continua stretta fiscale alla politica economica del vecchio continente.
Invece, l’Unione europea dovrebbe elaborare alcuni obiettivi di politica economica validi per tutta l’Unione e adattabili di anno in anno a seconda delle contingenze, per poi avanzare raccomandazioni ai singoli paesi affinché le loro politiche fiscali siano complessivamente coerenti con gli obiettivi europei.
Questo potrebbe portare i paesi con minori squilibri a fare politiche più espansive che andrebbero a compensare eventuali politiche restrittive di altri paesi che potrebbero dover correggere specifici squilibri, facendo attenzione a evitare che le differenti politiche si trasformino in eccessivi vantaggi per le imprese di un paese rispetto a quelle di un altro paese.
Ne deriverebbe una politica economica adatta alla crescita dell’Unione europea, assieme a un processo di riequilibrio per i paesi le cui finanze pubbliche fossero maggiormente in tensione. Una logica di bilancio europeo, seppure mediato come somma dei bilanci nazionali, potrebbe permettere all’Unione europea di affrontare le esigenze congiunturali che si manifestano continuamente e che necessitano una capacità di reazione politica in senso espansivo o restrittivo.
Il modello Stati Uniti
Abbiamo già assistito all’incoerenza di una politica monetaria restrittiva nel corso del 2023 volta a frenare l’inflazione, accompagnata da una politica fiscale spesso espansiva da parte dei paesi europei, in regime di sospensione del Patto di stabilità, che hanno finito per intralciare la lotta all’inflazione, costringendo la Bce a manovre sempre più restrittive.
Domani, se l’inflazione fosse stata domata e fosse necessario rilanciare la crescita, ci troveremmo probabilmente in una posizione inversa, con una politica monetaria espansiva controbilanciata da politiche fiscali restrittive per la necessità di ridurre comunque i livelli dei debiti pubblici dei singoli paesi a causa del ritorno dei limiti del Patto di stabilità.
Sarebbe dunque necessario che la discussione della riforma del Patto di stabilità e crescita fosse accompagnata anche da un’ipotesi di politica economica adatta per l’Europa, come avviene per gli Stati Uniti d’America, per evitare che la somma delle 27 politiche nazionali sia del tutto incoerente con le necessità dell’economia europea.
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