- La Camera dei deputati ha approvato all’unanimità la proposta di legge di modifica del Codice delle Pari Opportunità, che introduce anche ulteriori disposizioni volte a favorire l’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro.
- divari di genere nelle retribuzioni e nell’occupazione testimoniano l’assenza di una parità effettiva tra uomini e donne nel mercato del lavoro.
- A fine 2020 l’Italia registrava uno dei peggiori tassi di occupazione femminile nell’Unione Europa (48,5 per cento), meglio solo della Grecia
La Camera dei deputati ha approvato all’unanimità la proposta di legge di modifica del Codice delle Pari Opportunità, che introduce anche ulteriori disposizioni volte a favorire l’uguaglianza di genere nel mercato del lavoro. Ora il provvedimento passerà al Senato.
Le misure sulla promozione della parità salariale sono al cuore della proposta di legge, che pure tocca altri aspetti, come quello della applicazione delle quote di rappresentanza di genere nelle società controllate dalle pubbliche amministrazioni per ulteriori tre mandati e con una soglia del 40 per cento, come avviene per le società quotate.
I divari di genere nelle retribuzioni e nell’occupazione testimoniano l’assenza di una parità effettiva tra uomini e donne nel mercato del lavoro. A fine 2020 l’Italia registrava uno dei peggiori tassi di occupazione femminile nell’Unione Europa (48,5 per cento), meglio solo della Grecia e ben 14 punti percentuali al di sotto della media europea.
Secondo i dati Eurostat, i differenziali salariali in Italia sono del 4,7 per cento contro una media nell’Unione europea del 14,1 per cento, ma le differenze tra settore pubblico e privato sono enormi: 3,8 per cento nel primo e 17 per cento nel secondo. La riduzione dei differenziali salariali di genere chiama quindi in causa il settore privato e le dinamiche retributive nelle imprese, e bene fa la proposta di legge a concentrarsi su di esse.
In Italia, il Codice delle pari opportunità obbliga al momento le imprese con più di 100 dipendenti a stilare un rapporto almeno biennale sulla situazione del personale maschile e femminile in termini di occupazione e retribuzione.
Se la proposta passasse anche al Senato, la soglia dell’obbligo scenderebbe a 50 dipendenti e il rapporto dovrebbe essere biennale, con la facoltà per le imprese di minori dimensioni di stilare la relazione su base volontaria. Si passa dalle circa 13.000 imprese con più di 100 dipendenti, alle 31.000 con più di 50 dipendenti.
D’altro canto, il divario salariale di genere cresce significativamente con la dimensione dell’impresa. E’ pari al 15 per cento nelle imprese tra 50 e 100 dipendenti, sale al 18 per cento per quelle tra i 100 e i 500 e arriva al 23 per cento per quelle oltre i 500 dipendenti (mentre per le imprese fino a 15 dipendenti è il 6 per cento).
Questo testimonia come la struttura verticale dell’organizzazione e le diverse opportunità di progressione di carriera per uomini e donne siano un elemento cruciale della disuguaglianza di genere nei salari.
Il principio della “stessa paga per stesso lavoro, o lavoro di uguale valore” non garantirebbe – anche se rispettato – la eliminazione dei differenziali salariali di genere. Lavori di ricerca su Portogallo (condotti dal Nobel David Card e suoi coautori), Francia e anche Italia mostrano che le disuguaglianze salariali all’interno delle imprese influenzano in modo significativo la disuguaglianza di genere.
Essere trasparenti sull’inquadramento di uomini e donne nell’organizzazione aziendale può però contribuire a ridurla.
Alcuni studi sul Regno Unito, che ha introdotto per le imprese con più di 250 dipendenti l’obbligo di pubblicare annualmente i dati relativi al gender pay gap, evidenziano che la politica di trasparenza ha ridotto il differenziale salariale di genere nelle imprese interessate dagli obblighi rispetto a quelle che non lo sono, oltre ad aver spinto le imprese coinvolte dalla riforma a pubblicare annunci di lavoro più attenti al linguaggio di genere o con maggiori opportunità di flessibilità nell’organizzazione del lavoro.
La pubblicazione dell’elenco delle aziende che ottemperano o meno all’obbligo è un’altra innovazione introdotta dalla proposta di legge. Al di là dell’elenco, sarà però necessario che le informazioni puntuali raccolte nelle relazioni siano verificate e analizzate, affinchè la relazione non sia un vuoto adempimento.
All’obbligo della redazione della relazione per le imprese con un minimo di 50 dipendenti si accompagna l’istituzione di una certificazione della parità di genere dal gennaio 2022, per riconoscere le aziende che si muovono nella direzione di una maggiore parità tra generi. Il bastone e la carota.
I dettagli sui requisiti da soddisfare per ottenerla sono demandati a futuri decreti, mentre delle risorse sotto forma di sgravi contributivi sono destinate, entro certi limiti, alle imprese certificate come eque.
Mentre la visibilità per i percorsi virtuosi è condivisibile, il “premio” monetario suggerisce che, per arrivare al momento in cui l’uguaglianza di genere non sia considerata un costo per le imprese (per cui devono essere compensate) ma un vantaggio, serve ancora tempo.
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