Le manovre del finanziere tedesco Lars Windhorst, che nel 2018 comprò il famoso marchio di intimo, hanno lasciato l’azienda bolognese sull’orlo del crack. Ora 300 lavoratrici, da mesi senza stipendio, sperano nell’intervento dei politici e della magistratura, per evitare la vendita della griffe e la liquidazione
È approdata a Bruxelles la lotta delle lavoratrici per salvare La Perla, marchio della moda conosciuto in tutto il mondo che rischia di scomparire. La storica azienda bolognese specializzata nella biancheria intima di lusso, versa in cattivissime acque dal 2018, vittima delle manovre finanziarie del fondo anglo-olandese Tennor, guidato dal finanziere tedesco Lars Windhorst.
Dopo una serie di tagli al personale decisi dalla gestione Windhorst, negli stabilimenti emiliani restano poco più di trecento dipendenti, quasi tutte donne, che non ricevono lo stipendio da quattro mesi. E mercoledì una rappresentanza delle lavoratrici era di fronte al Parlamento Europeo per far sentire la loro voce, sollecitando i rappresentanti italiani ad attivarsi, per salvare un marchio che quest’anno compie settanta anni.
«Il 24 gennaio è stata una giornata importante per le lavoratrici de La Perla, e per il loro futuro. In trasferta a Bruxelles abbiamo incontrato uomini e donne eletti in Italia come eurodeputati. Il nostro obiettivo era quello di accendere un faro su una vertenza con portata transnazionale», si legge nella nota diffusa da FIlctem-Cgil e Uiltec-Uil Bologna.
La magistratura si è già attivata, ora tocca alla politica evitare che un’eccellenza della manifattura italiana lasci per sempre il nostro paese, perché la questione non può essere risolta nelle aule di tribunale. «Se la priorità resta il pagamento degli stipendi delle lavoratrici, che aspettano da ottobre, occorre una volta per tutte pensare ad un impianto normativo europeo che regolamenti i fondi finanziari nelle loro operazioni di acquisizione e vendita dei marchi».
Una storia di successo
Era il 1954 quando la sarta bolognese Ada Masotti aprí un piccolo laboratorio di corsetteria, diventando in poco tempo un punto di riferimento globale per gli articoli di lingerie di lusso, aprendo numerosi punti vendita in tutto il mondo, andando ad arricchire la fama del Made in Italy nel settore della moda. A partire dagli anni Sessanta, la direzione dell’azienda passa nelle mani di Alberto Masotti, figlio di Ada, e la gestione familiare va avanti per oltre cinquanta anni, finché nel 2008, complice la crisi finanziaria, la famiglia Masotti decide di vendere La Perla al fondo americano di private equity Jh Partners.
La nuova gestione, contraddistinta da un massiccio ricorso alla cassa integrazione, dura solo cinque anni, e nel 2013 il marchio venne acquisito all’asta per 69 milioni di euro da Silvio Scaglia, il fondatore - tra le altre cose - di Fastweb. Ma anche l’era di Scaglia dura solo cinque anni, e nel 2018 La Perla finisce nelle mani di Sapinda (che cambierà nome in Tennor l’anno dopo), fondo di investimenti anglo-olandese guidato da Lars Windhorst, finanziere tedesco con due procedure di fallimento alle spalle e una storia di affari poco chiari.
Un fondo poco raccomandabile
Nel giro di cinque anni la gestione Windhorst porta il numero dei dipendenti da 1400 a 300. Una situazione che è precipitata negli ultimi mesi: «La strategia di Windhorst è questa: portare le lavoratrici allo stremo per avere mani libere nella cessione del marchio dopo averlo spolpato. L’ennesimo capolavoro di speculazione finanziaria», dice Stefania Pisani, sindacalistica della Filctem-Cgil di Bologna. E fa anche un appello al governo Meloni affinché prenda in mano la vertenza e si vada in direzione dell’amministrazione straordinaria, dopo che il tavolo convocato lo scorso 6 novembre si è concluso con un nulla di fatto, con Windhorst che non si è nemmeno presentato.
Nel frattempo, si è mossa la magistratura, con il giudice del tribunale di Bologna Maurizio Atzori che, a seguito di un’istanza presentata dalla Filctem, ha disposto a dicembre il sequestro preventivo di La Perla Manifacturing (la branca aziendale che gestisce lo stabilimento di Bologna), allargando all’inizio di quest’anno il provvedimento a La Perla Management, che è proprietaria del marchio e ha sede a Londra. Si attende un nuovo pronunciamento del giudice entro la fine di gennaio, ma il timore di sindacati e dipendenti è che venga sollevato un conflitto d’attribuzione dalla magistratura inglese, che in seguito alla Brexit si è dotata di una normativa differente in materia.
«Anche la politica deve attivarsi, chiedendo garanzie al governo inglese - continua Stefania Pisani - non possiamo lasciare che il marchio venga venduto separato dagli stabilimenti. Il brand e la produzione devono andare di pari passo, perché tutto il know-how è negli stabilimenti bolognesi». Vendendo il marchio, Windhorst andrebbe a compromettere gravemente la continuità aziendale, con le lavoratrici, che hanno un’età media di 50 anni e sono iper specializzate, che resterebbero con ogni probabilità senza lavoro, non potendo più contare sulla forza attrattiva del brand La Perla di fronte a nuovi possibili acquirenti.
La sede di Londra è già stata messa in liquidazione a inizio novembre e al finanziere tedesco sono stati contestati debiti per 12 milioni di sterline. Da qui l’urgenza dei sequestri, per evitare che Windhorst ripiani la situazione debitoria cedendo i vari asset aziendali, a partire dal marchio. Ma adesso bisogna garantire un futuro alle trecento persone ancora senza stipendio dallo scorso ottobre, in questo settantesimo anniversario dal sapore amaro, e per questo Stefania Pisani si rivolge nuovamente al governo: «Dimostrino di essere dei veri patrioti, e facciano qualcosa di concreto per salvare questa eccellenza italiana dalla speculazione finanziaria».
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