Il ministro lancia l’allarme sul debito pubblico per preparare il terreno a una manovra finanziaria che avrà numeri molto diversi da quelli promessi dal governo fino a pochi giorni fa
Un po’ grillo parlante, un po’ profeta di sventura, Giancarlo Giorgetti lancia l’allarme sul debito pubblico per preparare il terreno a una manovra finanziaria che avrà numeri molto diversi da quelli promessi dal governo fino a pochi giorni fa. Non siamo ancora al “lacrime e sangue”, ma quasi.
È un ribaltone vero, nei toni e nei contenuti, se si pensa che solo tre settimane fa, il 28 agosto, al rientro dalle vacanze, Giorgia Meloni ipotizzava di “liberare altre risorse finanziarie” da destinare alle politiche demografiche e alla natalità.
Poi, seguendo un copione di sicuro concordato in anticipo, Giorgetti ha rubato la scena alla premier, in un crescendo allarmistico davvero insolito per il taciturno ministro lumbard.
Domenica scorsa, sul palco del raduno di Pontida, il responsabile del Mef ha ricordato ai militanti leghisti che ogni mattina si alza “con un grande debito sulle spalle: 2.859 miliardi” e ieri è tornato sull’argomento per lamentare il conto salato che l’Italia sarà costretta a pagare per effetto dell’aumento dei tassi d’interesse. L’anno prossimo il Tesoro dovrà trovare 14 miliardi in più per far fronte all’impennata dei rendimenti dei titoli di stato.
Rendita finanziaria
Nelle tabelle del Def approvato a primavera la voce “spesa per interessi” era stata stimata a 85 miliardi nel 2024 a cui andranno sommati 14 miliardi per arrivare a un totale di che sfiora i 100 miliardi. Praticamente mezza manovra, che vale attorno a 30 miliardi, è stata spazzata via dalla “rendita finanziaria”, per usare le parole pronunciate ieri da Giorgetti.
Soldi, ha continuato il ministro, che si sarebbero potuti mettere sul fisco, ma che “non ci sono più”.
Il messaggio è chiaro. Delle promesse del centrodestra si salverà, forse, l’intervento sui salari per ridurre il cuneo contributivo, ma i tagli alle tasse sono rimandati a data da destinarsi. E su tutto il resto, dalle pensioni alla sanità, “siamo in alto mare” ha tagliato corto il ministro.
Effetto spread
Intanto, dai mercati finanziari arrivano segnali evidenti di apprensione per il futuro dei nostri conti pubblici. Lo spread naviga da giorni poco sotto quota 180 punti, in crescita di circa 20 punti rispetto all’inizio dell’estate.
Niente di drammatico, per il momento, se si pensa che a inizio anno lo stesso indice era intorno a quota 200. È evidente, però, che il governo Meloni sta rapidamente dilapidando il capitale di fiducia accumulato tra i grandi investitori internazionali nei primi sei mesi del mandato. Decisivo sarà il rapporto con l’Europa e qui tutto ruota intorno a un numero, il rapporto tra deficit e Pil per il 2024 che Giorgetti dovrà indicare nella Nadef, la Nota di aggiornamento al Def che va approvata entro il prossimo 27 settembre.
Il governo si è impegnato con Bruxelles a scendere dal 4,5 per cento previsto per quest’anno fino al 3,7 per cento su cui andrebbe impostata la prossima manovra. Il problema, adesso, è che tra oneri imprevisti del Superbonus e spesa supplementare per interessi, restano solo una manciata di miliardi per una manovra che rispetti i paletti concordati con la Commissione Ue.
Pil in frenata
Peggio ancora, con un Pil in netta frenata, pare ormai certo che la crescita del 2024 sarà più bassa dell’1,4 per cento previsto dal governo nel Def, le stime più accreditate oscillano tra lo 0,8 e lo 0,9 per cento. Questo significa che il disavanzo dell’anno prossimo va confrontato con un prodotto interno in diminuzione e questo contribuisce a dare il colpo di grazia alle ambizioni dell’esecutivo.
Nel weekend scorso, al vertice Ecofin di Santiago de Compostela, in Spagna, ha potuto misurare la distanza che separa le richieste dell’Unione europea dai numeri dei nostri conti pubblici. Il confronto è solo all’inizio ed è molto probabile che nelle prossime settimane la pressione dei numeri spinga Meloni a ritagliarsi il ruolo di vittima dell’Europa matrigna, come sta succedendo in queste ore sul fronte dell’immigrazione. Un copione consolidato, che difficilmente convincerà Bruxelles. E tantomeno i mercati finanziari.
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