L’ex presidente Bce: «Ogni anno 800 miliardi d’investimenti in più per rilanciare la competitività». «Mobilitare risorse private e limitare i poteri di veto dei singoli stati per decidere rapidamente»
Cambiare, e cambiare in fretta, oppure arrendersi al triste destino di una decrescita infelice. Chiamato da Ursula von der Leyen a tracciare una rotta possibile per salvare l’Unione dal declino, Mario Draghi ha presentato un rapporto che mette l’istituzione europea di fronte a una sfida definita “esistenziale”.
Niente sarà più come prima se i 27 paesi non trovano in fretta un sentiero comune per ridare slancio a una crescita economica che nell’ultimo ventennio ha visto il continente perdere costantemente terreno nei confronti degli Stati Uniti e della Cina.
La sfida, secondo Draghi, si gioca sulla produttività, che in Europa è stagnante se confrontata a quella dei suoi grandi concorrenti globali. Per vincere la partita bisogna concentrare le risorse in tre direzioni: la digitalizzazione dell’economia, la decarbonizzazione, puntando sulle tecnologie verdi, e l’aumento della capacità di difesa.
Vasto programma, certo, che avrà un costo gigantesco. Quanto? Il rapporto Draghi ipotizza che ogni anno saranno necessari investimenti supplementari per una somma compresa tra i 750 e gli 800 miliardi di euro, pari al 4,4-4,7 per cento del Pil dell’Unione. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza dello sforzo a cui saranno chiamati i paesi Ue, basta dire che tra il 1948 e il 1951 il Piano Marshall valeva non più del 2 per cento del Pil dell’epoca.
Debito comune
Questi sono i numeri con cui è chiamata a confrontarsi un’Europa in grave crisi d’identità, incapace di prendere decisioni rapide per via delle divisioni sempre più ampie tra i diversi paesi membri e, infine, appesantita da una burocrazia che complica anche la realizzazione dei progetti più semplici.
Proprio per questo, se si guarda alla storia recente dell’istituzione europea, le difficoltà della svolta illustrata nel rapporto appaiono a dir poco difficili da superare. Giusto per fare un esempio, l’ex presidente della Bce spiega che sarà necessaria l’emissione di una qualche forma di debito comune, a sua volta facilitata dal completamento del mercato unico dei capitali che favorirebbe la raccolta del risparmio privato.
Il problema, però, è che finora proprio i divari tra i singoli paesi sul piano della finanza pubblica hanno reso impossibile trovare un’intesa. E il dietro front del governo Meloni, con la mancata ratifica del Mes, non ha fatto che aumentare la diffidenza dei paesi nordici. Draghi ha ben presente le difficoltà del pachiderma Ue, ma taglia corto dicendo che l’alternativa al cambiamento è la fine dell’Unione così come la conosciamo. Se crescita e produttività non ripartono in fretta, non ci potremo più permettere il nostro modello di welfare e diventerà più difficile garantire pace, libertà e democrazia. In altri termini, si legge nel rapporto, l’Unione perderà la sua ragion d’essere.
Welfare da difendere
L’aumento della produttività, secondo Draghi, libererebbe risorse anche per preservare il welfare europeo, scongiurando la spirale, favorita anche dalla rivoluzione tecnologica, che negli ultimi anni ha provocato l’aumento delle disuguaglianze negli Stati Uniti. Le politiche di coesione andrebbero quindi ripensate per concentrarsi sull’istruzione, i trasporti, la casa e la connettività digitale. Questo è l’unico passaggio del rapporto in cui viene affrontata la questione dell’aumento delle disparità all’interno dell’Unione.
Come detto, l’ex presidente del Consiglio individua tre aree d’intervento per rilanciare la crescita. È necessario innanzitutto recuperare terreno nella sfida tecnologica con Stati Uniti e Cina. L’Europa, dove non mancano imprenditori innovativi, non riesce a trasformare le idee di successo in aziende vincenti, perché è complicato reperire i capitali necessari a fare il salto di qualità e la burocrazia ostacola lo sviluppo.
Anche la decarbonizzazione rappresenta, almeno in teoria, una straordinaria occasione per rilanciare la crescita, ma qui Draghi segnala la mancanza di una politica coerente da parte dell’Unione. Bruxelles da una parte penalizza le aziende, già costrette a pagare costi per l’energia molto superiori a quelli correnti negli Usa o in Cina, e dall’altra finisce per favorire gli speculatori sui mercati delle materie prime.
Infine, l’Europa deve difendere la sua indipendenza, sia per quanto riguarda l’accesso alle materie prime e alla tecnologia, in primo luogo digitale, sia sul piano della deterrenza militare.
In questo campo sarebbe più che mai necessario ciò che finora è mancato quasi del tutto. E cioè una politica estera comune per far fronte alla comune emergenza.
Nuova governance
Al contrario, l’Ue si è dimostrata incapace di spendere dove sarebbe necessario farlo e il processo decisionale è rallentato dal potere di veto dei singoli paesi. Tutto questo secondo Draghi impedisce di finanziare progetti di portata continentale. Servono più risorse, quindi, ma bisogna anche cambiare il modo in cui i soldi vengono spesi. Per riuscirci, l’Unione prendere le sue decisioni in modo diverso. La governance attuale, sostiene il rapporto, risale a una fase storica in cui si doveva favorire l’integrazione tra i vari paesi. Si sono così moltiplicati i poteri di veto dei singoli governi.
Adesso però bisogna coordinarsi per affrontare le nuove sfide. In alcuni settori va garantita maggiore libertà d’azione agli Stati che vogliono muoversi più velocemente. In sostanza, andrebbero aumentati i casi in cui viene messo da parte il principio dell’unanimità nelle decisioni. Per la governance di Bruxelles sarebbe una svolta decisiva, ma come molte altre delle raccomandazioni di Draghi, allo stato attuale anche questa proposta sembra destinata a raccogliere ben poche adesioni nelle capitali europee.
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