- Pesano in Italia il calo della produzione di auto e l’atteggiamento negativo degli ultimi governi rispetto alla transizione ecologica; rimangono ostacoli storici come l’incertezza normativa
- I due progetti con maggiore visibilità mediatica – le supercar di Silk EV e le batterie di Italvolt – alla prova dei fatti si sono rivelati inconsistenti
- I big dei componenti auto sono pochi e poche sono anche le aziende che fanno ricerca e dispongono di tecnologie avanzate
La transizione alla mobilità elettrica nel settore auto sta attirando in Europa un volume crescente di investimenti, specialmente dalla Cina; purtroppo, come è avvenuto spesso in passato, l’Italia resta tagliata fuori. Pesano il calo della produzione di auto e l’atteggiamento negativo degli ultimi governi rispetto alla transizione ecologica; rimangono poi ostacoli storici come l’incertezza normativa e l’incapacità dei governi di operare attivamente nei confronti dei possibili investitori.
L’occasione sarebbe storica: le aziende cinesi, che nello scorso decennio hanno acquistato attività in Europa, si sono di recente orientate verso la creazione diretta di nuove attività produttive in loco, come hanno fatto già in passato quelle giapponesi e coreane; il motivo è il timore che le preoccupazioni protezionistiche dei paesi UE impongano dazi elevati o barriere alle importazioni.
Ecco qualche esempio degli investimenti in gioco: la taiwanese ProLogium ha annunciato venerdì scorso che costruirà a Dunkerque, nel Nord della Francia, un impianto per batterie da 5.2 miliardi di euro, creando 3mila posti di lavoro più l’indotto; nel 2022 la cinese CATL, leader mondiale nelle celle per batterie, ha annunciato un progetto in Ungheria da 7,6 miliardi di euro (CATL ha già una fabbrica a Erfurt, in Germania); la BYD, colosso delle batterie e dell’auto elettrica, intende costruire una base produttiva in Europa; nella sua “shortlist” dei paesi candidati ci sono Germania, Francia, Spagna, Polonia e Bulgaria.
In Italia per ora solo “bufale”
In Italia i progetti stranieri che più hanno occupato spazio sui media si sono rivelati finora inconsistenti. Lars Carlstrom, finanziere svedese, tenta da due anni di “vendere” alle autorità italiane la sua idea di una gigafabbrica di batterie. La sua Italvolt puntava prima sui terreni dell’ex Olivetti di Scarmagno, vicino a Ivrea; poi, per veri o presunti problemi di bonifica del sito e di connessione alla rete elettrica degli impianti, ha fatto rotta su Termini Imerese dove qualche centinaio di operai dell’ex stabilimento Fiat chiuso nel 2010 attende ancora (in cassa integrazione) una riconversione.
Non è finito meglio il sogno di una supercar elettrica italo-cinese a Reggio Emilia, durato anch’esso due anni: un paio di mesi fa la regione Emilia Romagna ha ufficialmente cancellato il promesso contributo da 4,5 milioni di euro spiegando che la Silk EV, promotrice del progetto, si era ritirata dal contratto. La joint venture tra il finanziere americano Jonathan Krane e uno dei maggiori gruppi statali cinesi, presentata all’inizio del 2021, aveva assunto molti top manager italiani e promesso investimenti da oltre un miliardo di euro, ma non è andata oltre qualche rendering del futuro sito e un prototipo di auto sportiva. In questi giorni Krane è tornato alla carica presentando al tribunale di Reggio Emilia un piano di risanamento con soci diversi, cinesi e arabi, ma la credibilità non sembra maggiore.
Secondo un rapporto EY, nel 2021 il nostro paese ha ricevuto 207 investimenti esteri; più dei 113 del 2020 (anno del Covid) ma lontano dalle oltre 1.200 operazioni in Francia, quasi mille nel Regno Unito, oltre 800 in Germania.
Sia nel caso di Silk EV che in quello di Italvolt gli enti locali – regioni e comuni – sono stati al centro della scena, quanto meno a livello comunicativo. Per attrarre investimenti colossali come quelli nelle gigafabbriche di batterie, però, il ruolo dei governi centrali è essenziale. Nel caso dell’investimento ProLogium a Dunkerque, per esempio, la stampa francese scrive che il presidente Macron ha personalmente contattato i vertici dell’azienda taiwanese oltre un anno fa. E lo stesso Macron ha incontrato nei giorni scorsi Elon Musk per cercare di attirare in Francia una nuova fabbrica Tesla.
Secondo Stefano Aversa, presidente per l’Europa della società di consulenza AlixPartners, serve in generale un’azione più efficace nella promozione degli investimenti: "L’Italia dovrebbe potenziare ITA (Italian Trade Agency) come ha fatto la Francia molti anni fa con Invest in France; quest’ultima è in grado di preparare dossier completi per i potenziali investitori stranieri e di organizzare in tempi brevissimi visite ai potenziali siti".
Chi investe chiede sempre più incentivi
L’attivismo da solo non basta; in questo periodo i grandi investitori hanno il coltello dalla parte del manico e danno vita a vere e proprie aste al rialzo tra paesi per farsi finanziare la quota più alta possibile degli investimenti. Di recente la svedese Northvolt ha dato via libera a un progetto di fabbrica di batterie in Germania solo dopo che Berlino ha accettato di aumentare i sussidi in misura significativa; il colosso americano dei semiconduttori Intel è a sua volta impegnato in un braccio di ferro simile con il governo tedesco. La stessa Intel aveva detto di voler costruire in Italia un impianto di assemblaggio di chip da 4,5 miliardi di euro, e forse non è un caso che l’operazione sia attualmente uscita dai radar.
Non mancano in Italia fattori negativi specifici del settore auto. Nel caso della produzione di batterie, il costo relativamente elevato dell’energia è penalizzante, così come lo è un mix energetico dove le fonti fossili sono ancora relativamente abbondanti.
C’è poi un fattore importante ma di cui filiera e autorità tendono a parlare pochissimo: in Italia si producono ormai poche automobili e l’unico costruttore di peso, la Fiat, è confluita in Stellantis, di fatto a controllo straniero. Francesco Zirpoli, professore di management all’Università Ca’ Foscari di Venezia, ricorda che “Regno Unito o Spagna, privi di un grande costruttore nazionale, producono più automobili dell’Italia perché hanno agevolato e non ostacolato gli investimenti diretti dall’estero da parte di produttori auto stranieri”.
Nel 2022 la produzione di automobili in Italia è stata di circa 480mila unità (furgoni esclusi), meno di metà dei livelli di Francia, Repubblica Ceca e Slovacchia, un quarto della Spagna e un settimo della Germania. La localizzazione delle gigafabbriche di batterie tende almeno in parte a seguire quella degli stabilimenti di assemblaggio di auto; non è un caso se l’unico investimento “estero” in Italia è per ora quello di Stellantis, che convertirà la fabbrica di motori di Termoli in una di accumulatori.
Il monopolio della produzione di auto si è tradotto in un controllo di fatto di Fiat anche sulla catena di fornitura: secondo Zirpoli ciò ha permesso a Fiat “una strategia di forte indirizzo degli investimenti dei propri fornitori con selezione dei gruppi stranieri da far entrare in Italia, selezione delle aziende italiane di primo livello che questi hanno acquisito per entrare, selezione dei fornitori di secondo livello che dovevano sopravvivere”.
Sono pochi anche i big dei componenti auto
La più grande azienda di componenti per auto – Magneti Marelli – è stata venduta dalla Fiat nel 2019 al gruppo giapponese Calsonic. Il numero uno italiano è ormai la italo-francese StMicroelectronics, che è uno dei leader europei nei semiconduttori: i suoi oltre 5 miliardi di fatturato 2022 nell’auto superano i 3,6 miliardi di Brembo, leader nei freni di alta gamma. Molte delle aziende di punta sono a capitale straniero; come la Idra, che costruisce nel bresciano le giga-presse per fabbricare le Tesla. Le aziende di dimensioni globali sono poche; Marco Stella, responsabile del gruppo componenti dell’associazione di settore ANFIA, ha parlato in questi giorni di “nanismo delle eccellenze”.
Gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo fanno però sì che le aziende italiane appetibili per la loro tecnologia siano poche. “Perdiamo capacità di competere sulla frontiera della conoscenza – sintetizza Zirpoli – per effetto della mancanza di fornitori di grandi dimensioni e della difficoltà di fare rete”.
A detta degli esperti, le prospettive migliori potrebbero venire da una maggiore cooperazione tra imprese e università. Secondo Aversa “chi investe dall’estero lo fa anche per acquisire tecnologie, ed in Italia poche aziende fanno ricerca di base o avanzata; manca spesso un collegamento stretto con le università, presente invece in paesi come il Regno Unito, Olanda, Svizzera, ma anche la Spagna".
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