- Il direttore generale del Mef ha passato gli ultimi giorni alla ricerca di investitori per Mps. L’aumento di capitale non è risolutivo in sé ma serve per comprare tempo e pagare gli esuberi massicci per poi trovare un vero acquirente.
- Ha coinvolto fondazioni bancarie, per decenni considerate il male del sistema, e casse previdenziali su cui il Tesoro ha ruolo di vigilanza per convincerle a un investimento in perdita.
- Tutto per evitare il burdegn sharing, che significherebbe un prima e un dopo per il sistema italiano, ma che ora vedrebbe coinvolti azionisti, che hanno già perso quasi tutto, e investitori istituzionali come i fondi di investimento.
Questa settimana ha segnato un nuovo picco nella gestione tutta politica dei dossier bancari italiani. Nella quasi indifferenza generale dovuta alla distrazione fornita dal nuovo governo, il direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera ha trascorso gli ultimi giorni al ministero dell’Economia impegnato in una infinita questua per raccogliere i fondi necessari all’aumento di capitale del Monte dei Paschi di Siena, banca troppo grande o troppo politica per fallire.
L’uomo che per Mario Draghi ha sbrigato le faccende più spinose, da Autostrade per l’Italia al Monte dei Paschi di Siena, ha sempre cercato di tenersi lontano visto il suo passato in Banca d’Italia ai tempi dell’acquisizione di Antonveneta, ha bussato a tutte le porte per mettere insieme una cifra almeno vicina ai 2,5 miliardi di euro necessari all’operazione.
L’aumento di capitale di Mps si deve fare non perché risolva alcunché, ma perché con l’aumento di capitale si compra altro tempo prima di vendere la banca, nel linguaggio ufficiale «trovare un partner», e si pagano gli esuberi massicci che servono ad alleggerire l’istituto e consegnarlo più snello di quanto tentato con Unicredit a un altro acquirente. L’obbligo politico è tale che per portarlo a termine possono anche saltare tutte le regole più o meno vincolanti che dovrebbero valere in un mercato regolato come quello del credito.
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Le obbligazioni in scadenza
Nell’ultima settimana il prezzo delle obbligazioni subordinate di Mps è crollato e il rendimento ha superato anche il 300 per cento, perché se l’aumento di capitale non andasse in porto si potrebbe ricorrere al bail in, imponendo perdite prima agli azionisti, che hanno comunque già perso quasi tutto con il crollo dei titoli di questi mesi, e poi agli obbligazionisti subordinati non garantiti.
Nel periodo della crisi delle banche popolari questo significava imporre perdite anche a investitori non professionali, cioè a coloro che non sanno valutare bene il rischio, perché per anni le obbligazioni subordinate erano state spacciate da banchieri e truffatori vari come un investimento sicuro.
Oggi sulla carta le obbligazioni subordinate non garantite possono essere vendute solo a investitori professionali. Nel gennaio 2023 è esercitabile la call, cioè si può chiedere il rimborso anticipato, del titolo subordinato emesso da Mps nel 2018 per un totale di 750 milioni di euro. Mentre nel 2024 sono in scadenza altri 3,75 miliardi di euro in bond subordinati.
Oggi quei titoli sono nei portafogli di fondi di investimento che hanno divisioni specializzate in bond ad alto rendimento, come lo stesso fondo Algebris che ha garantito 50 milioni nell’aumento di capitale di Mps. Ma questa via non è considerata un’opzione. E l’obbligo politico di portare a termine è tale che possono anche saltare tutte le regole che dovrebbero valere in un mercato regolato come quello del credito.
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Agli investitori che sono stati coinvolti nell’operazione preliminare dell’aumento di capitale, a partire dalle banche del consorzio di garanzia, sono state garantite commissioni pari al 15 per cento dell’operazione, al punto da far arrivare una contestazione all’autorità vigilanza della Bce. Ma non è bastato a trovare il capitale necessario e il Tesoro ha preferito andare a battere cassa alle fondazioni bancarie, le stesse che per vent’anni sono state, spesso giustamente, accusate di essere il problema del nostro sistema del credito su cui esercitavano interessi politici.
Si sono convinte prima Cariplo, poi Crt, Cariparo, tutte nell’orbita di Intesa San Paolo, non Cariverona. E questo, accantonata la grande ipocrisia sul ruolo delle fondazioni, ha almeno un senso industriale. Ma Rivera ha chiesto un aiuto, e di fatto un investimento in perdita, anche alle casse previdenziali, enti formalmente privati anche se equiparati per certi versi alle amministrazioni pubbliche, e sottoposti alla vigilanza del ministero del Lavoro e di quello dell’Economia. La vigilanza in questo caso è servita a suggerire il contrario della sana e buona gestione e a chiedere 60-70 milioni di euro sull’unghia, c’è riuscito solo con le casse azioniste di Banco Bpm.
Enpam, la cassa di previdenza dei medici, ha iniziato a valutare un contributo di dieci milioni e Inarcassa un’iniezione di 15. Insieme potrebbero investire la stessa cifra di un colosso del risparmio gestito come Anima.
Dopo questa pesca a strascico, il 3 novembre l’asta dei titoli invenduti concluderà l’aumento di Mps.
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