La visita in Europa del presidente cinese Xi Jinping ha messo chiaramente in luce uno dei maggiori problemi che il nostro continente dovrà affrontare nei prossimi anni. Chiaro il messaggio di Xi: non scatenate la Seconda Guerra Fredda. Ma dato che questa è già iniziata e vede il blocco sino-russo, a guida cinese, opposto agli Stati Uniti, il messaggio va letto come un invito all’Europa a non schierarsi.

L’obiettivo strategico è staccare l’Europa dagli Usa, perseguendo la visione di un grande continente Euroasiatico, soggetto alla Cina, già alla base del progetto Via della Seta. Non casuale la scelta dei Paesi visitati: dopo Francia, la Serbia, storicamente e culturalmente il più vicino alla Russia, e dove 25 anni fa aerei Nato bombardarono per errore l’ambasciata cinese; e l’Ungheria di Orbán, con posizioni apertamente filorusse nel conflitto ucraino, in contrasto con la politica dell’Unione.

Usa vs Cina

La Guerra Fredda tra Usa e Cina è iniziata da un pezzo. Il presidente Biden ha annunciato nuovi dazi sulle importazioni cinesi, elevandoli fino al 100 per cento sulle auto elettriche, in continuità con Trump; divieti stringenti all’esportazione di tecnologia verso la Cina; chiusura del mercato dei capitali americano alle imprese cinesi; e diserzione in massa dei titoli cinesi da parte degli investitori.

Per parte sua, la Cina ha da tempo proibito l’accesso delle imprese tecnologiche americane come Amazon, Google, o Meta, per sviluppare i propri campioni nazionali; e ha avviato un massiccio programma di investimenti nella difesa. Usa e Cina sono su fronti opposti nei confronti dell’Iran: la Cina lo sostiene acquistando il 90 per cento del suo petrolio; gli Usa offrono un ombrello militare a difesa di Israele e i paesi sunniti limitrofi; gli Usa forniscono armi all’Ucraina, mentre la Cina tiene a galla l’economia russa e le offre «un’amicizia senza limiti».

Le ragioni economiche

Il messaggio politico di Xi ha profonde ragioni economiche: ha l’assoluta necessità di rilanciare l’economia per realizzare i suoi piani egemonici e perpetuare il proprio potere. Dopo trent’anni di crescita a una media di quasi il 10 per cento, infatti, l’economia cinese è oggi in crisi e non si vede una rapida via di uscita.

Ma senza una ripresa sostenibile, potere e piani di Xi rischiano di infrangersi. La profonda crisi del settore immobiliare ha un effetto destabilizzante sulla solidità delle banche e sulle finanze degli enti locali, ma anche sulla fiducia dei cittadini, che limitano i consumi. Lo Stato cerca di rilanciare l’economia con investimenti pubblici ma, dopo anni di costruzioni di infrastrutture, il nuovo capitale ha una redditività decrescente; e la leva monetaria, oltre a essere limitata dalla necessità di sgonfiare la bolla immobiliare, rischierebbe di provocare una caduta dello yuan e una massiccia fuoriuscita di capitali. Mentre i capitali esteri sono già fuggiti.

Dopo una crescita del 5,2 per cento l’anno scorso, le previsioni di consenso stimano un continuo rallentamento al 4,7 e 4,3 nel 2024/25. La crescita zero dei prezzi evidenzia la debolezza dei consumi, e si prevede che l’inflazione rimanga ben al di sotto del 2 per cento anche nel 2025. Solo ad aprile l’indice dell’attività del settore manifatturiero ha superato il livello che indica recessione, e per i prezzi alla produzione è deflazione.

Le barriere

Per crescere, la Cina è tornata a puntare sulla domanda estera, arrivando a dominare settori come i materiali, tecnologia e manufatti necessari alla transizione ambientale, batterie o auto elettriche, spiazzando così i produttori locali; e lo fa con il pieno sostegno finanziario dello Stato. Una politica osteggiata dagli Usa che hanno alzato barriere tariffarie, spinto le aziende americane a delocalizzare gradualmente le produzioni in altri paesi, proibito trasferimenti di tecnologia alla Cina. Le barriere al commercio internazionale e ai movimenti di capitali sono però costose, perché aumentano i prezzi per i consumatori e riducono l’efficienza degli investimenti.

Per compensare gli effetti negativi di questa politica protezionistica, l’amministrazione Biden ha lanciato un vasto programma di crediti di imposta per incentivare gli investimenti in America nei settori dominati dalla Cina, in special modo nella transizione ambientale, anche con l’obiettivo di ricostruire la capacità manifatturiera interna. Una politica industriale che impone però un costo in termini di finanze pubbliche (il disavanzo è al 7 per cento del Pil) perché innalza i tassi di interesse a lungo termine. Un costo recuperabile nel tempo se la redditività degli investimenti finanziati con il debito pubblico aumenta stabilmente la produttività, come sembra stia succedendo: la produttività negli Stati Uniti è infatti cresciuta del 60 per cento negli ultimi 20 anni, rispetto al 20 dell’Eurozona.

E noi?

L’Europa è a metà del guado. A differenza degli Stati Uniti, le scelte strategiche del passato, colpevolmente miopi, hanno fortemente integrato l’economia europea con quella cinese. Invece dei consumi privati, come gli Usa, abbiamo puntato sull’export per la crescita. Ma non avendo una grande industria tecnologica, la Cina è diventata uno dei principali mercati di sbocco per le aziende in quelli che sono i nostri settori di punta: lusso, beni per la cura della persona, industria meccanica, auto e trasporti.

Così il rallentamento dell’economia cinese, e l’imperativo di Xi di rilanciarla con la domanda estera, ci colpisce due volte: da una parte, la Cina ci invade con prodotti iper competitivi, domina in settori cruciali come la transizione ambientale, anche grazie al know how che le abbiamo fornito con gli investimenti a casa loro (mi piacerebbe sapere quale tecnologia utilizza l’alta velocità tra Belgrado e Budapest, le due capitali visitate da Xi, finanziata dai cinesi); dall’altra, il crollo dei consumi interni e la stretta al “consumismo” dei nuovi capitalisti cinesi imposta da Xi frena le nostre esportazioni.

L’approccio americano alla Cina diventa così irrealistico: quando la Commissione europea tenta di alzare le barriere contro l’invasione dei prodotti cinesi, è bastata la rappresaglia di Xi sul cognac francese per portare Macron al tavolo delle trattative. E nonostante la seria minaccia di auto elettriche cinesi a basso costo costruite da BYD, non a caso, in Ungheria, Mercedes e Volkswagen si oppongono a misure protettive, per difendere le proprie vendite sul mercato cinese, da cui dipendono in misura considerevole i loro ricavi, nonostante una quota di mercato in continua discesa.

A questo si aggiunge l’ostracismo di Germania e altri paesi ai programmi di finanziamento pubblico comune degli investimenti in settori come difesa e ambiente, sul modello del Next Generation UE (NG), per avere la forza finanziaria necessaria a contrastare il sostegno cinese in questi settori e cercare di colmare il gap di produttività con gli Stati Uniti.

Un’idea, gli Eurobond, che si è però dimostrata vincente: il rendimento del debito emesso dalla Commissione per il NG è sceso al di sotto di quello dei titoli di stato francesi, segno che gli Eurobond sono finanziariamente convenienti e sensati. E ancora, a differenza degli Usa, rimane l’obsoleta religione dell’austerità, per quanto un po’ rimaneggiata, quando il problema non è il debito in sé, ma la sua eventuale capacità di colmare la carenza di investimenti e chiudere il gap di produttività. Niente a che vedere però con il nostro debito creato con l’elemosina dei bonus, l’evasione fiscale e le croniche inefficienze della Pubblica amministrazione.

L’alternativa è beneficiare delle produzioni cinesi a basso costo per la transizione ambientale e la delocalizzazione della nostra manifattura; e continuare a dipendere dalla domanda dei cinesi per i nostri beni di lusso. Un futuro che ci assoggetterebbe all’influenza economica e politica cinese, come dimostrato dal corteggiamento di Ungheria e Serbia a suon di capitali, oltre che a una crescente irrilevanza nel mondo. Una ricetta davvero indigesta.

In Italia, la visita di Xi è stata ignorata dalla politica: la dice lunga sul nostro declino e mancanza visione sul futuro del Paese.

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