L’andamento positivo del Pil, in cui hanno avuto un ruolo gli interventi eccezionali legate alla crisi Covid, sembra suggerire che basti la spesa pubblica per aumentare la crescita. Ma la realtà è più complessa e meno rassicurante
Basta la spesa pubblica per crescere? Guardando l’andamento dell’economia italiana negli ultimi tre anni, sembrerebbe di sì. I tassi di crescita sono risultati migliori delle attese, grazie soprattutto al “bonus edilizia” e, forse, anche al reddito di cittadinanza.
Provvedimenti non privi di difetti, ma comunque consistenti e rapidi. In particolare il bonus edilizia ha un elevato moltiplicatore, perché gran parte degli input utilizzati sono prodotti in Italia.
Ma pur avendo formalmente i contenuti di un investimento, non mostra elevati contenuti di innovazione tecnologica né di durata nel tempo dell’occupazione creata. In altre parole, non si tratta di investimenti paragonabili a quelli industriali. Era una strategia di emergenza, essenzialmente orientata al breve periodo.
Guardando invece indietro e al lungo periodo, non si può non osservare che l’economia italiana nello scorso ventennio è cresciuta pochissimo, pur in presenza di una spesa pubblica rilevante e tale da aumentare l’indebitamento del paese.
Quindi i dubbi sull’efficienza e l’efficacia della spesa sembrano legittimi. Keynes e le sue «buche da riempire» non hanno funzionato. E forse la spiegazione c’è: è mancato lo stimolo alla crescita dei consumi privati. Infatti i salari reali sono diminuiti.
La crescita dei salari
La spesa pubblica non è bastata, anche perché la crescita dei salari reali di solito è connessa ad aumenti della produttività, che a sua volta è in generale connessa all’aumento degli investimenti privati.
In questo quadro è arrivata l’inflazione, la più iniqua delle tasse perché colpisce soprattutto le categorie più deboli. È un’inflazione essenzialmente esogena (legata alla guerra in Ucraina e alla crisi delle materie prime). Tuttavia, sembra che abbia anche una componente legata ai profitti, molto elevati, delle imprese. E su questo occorre una breve digressione.
A parte le considerazioni sociali (un quadro di profitti elevati e di bassi salari), in un mercato concorrenziale e ben funzionante i profitti elevati sono la spia di rendite o quasi rendite, specie nel settore immobiliare e in quello finanziario. E l’Italia non ha una grande fama nella lotta alle rendite. Si pensi solo ai continui rinvii della legge sulla Concorrenza e alle vicende degli stabilimenti balneari o dei taxi.
L’unica cosa certa è che la presente inflazione non è legata alla spirale prezzi-salari. Cioè farà, e ha già fatto, diminuire ulteriormente i salari reali. E questo non è solo un problema sociale, fa anche venir meno la spinta alla crescita dei consumi (non dimentichiamo che la propensione alla spesa è più alta tra i percettori di salari di quella dei percettori di profitti).
L’inflazione eroderà il debito pubblico, ma questo effetto sarà controbilanciato dall’aumento del suo costo, generato dalle politiche di aumento dei tassi della Banca centrale europea. Questa politica anti inflazionistica, inoltre, rallenterà la crescita economica complessiva (se ne vedono già i primi segnali dal calo del Pil dell’ultimo trimestre), rendendo ancora più improbabile l’aumento “spontaneo” dei salari e indebolendo la forza contrattuale dei lavoratori.
Gli effetti del Pnrr
Per completare questo quadro tendenziale, torniamo al tema iniziale della spesa pubblica. Nei prossimi mesi cominceranno ad arrivare gli effetti positivi del Pnrr, cioè di nuova spesa pubblica “a basso costo”, anche se il Pnrr non sembra presentare una strategia organica e credibile.
Se però il contesto economico non cambierà, e si ritornerà invece al passato con molta spesa pubblica, un forte indebitamento e bassi salari, i rischi che se ne ripetano le conseguenze ritorneranno anch’essi. Con la spinta keynesiana alla crescita monca, sul versante dei consumi, a causa dei bassi salari.
I bassi salari inoltre rendono notoriamente “pigri” gli investitori privati, che troveranno meno incentivi a investire e innovare per aumentare la produttività del lavoro, visto che questo continuerebbe a essere un fattore poco oneroso.
Le raccomandazioni che discendono da questo sommario quadro sembrano abbastanza semplici: occorre rimettere in piedi la domanda interna, cioè aumentare i salari. Non basterà il moltiplicatore della spesa pubblica, dato l’onere del debito che ancora ci pesa addosso e che anche un successo del Pnrr non allevierà.
Corollario di tutto questo è la qualità della spesa pubblica, che anche nel Pnrr appare modesta (si pensi alle infrastrutture di trasporto di dubbia utilità), ma anche una molto più decisa azione politica contro le rendite. Se infatti la qualità della spesa pubblica è bassa, prevalgono gli aspetti negativi di compressione dei consumi legati a un elevato carico fiscale (cioè gli effetti noti come crowding out).
Purtroppo, tutte le azioni che abbiamo qui raccomandato sommariamente, non sembrano essere una priorità nelle politiche dell’attuale governo.
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