- A partire dagli anni Novanta l’italia è entrata in una fase di declino inarrestabile, sono aumentate diseguaglianze e la povertà.
- In tre decenni il paese è stato svuotato dello straordinario apparato finanziario, industriale e infrastrutturale frutto del genio e del duro lavoro dei nostri padri.
- Per recuperare il tempo perduto lo stato deve tornare ad investire nei settori strategici: innanzitutto tecnologie emergenti, infrastrutture di rete e supply chain, ma anche nel capitale umano.
Il 29 ottobre 2020 l’inserto Economia del Corriere della Sera pubblicava un articolo dal titolo: “Perché l’Italia è diventata irrilevante? Il declino spiegato dalla (spietata) analisi dell’Economist”, in cui venivano riportate alcune tra le ragioni che rendono l’Italia il «vero malato dell’Europa». L’8 dicembre scorso, a sua volta, il Financial Times riprendeva una mappa del McKinsey Global Institute in cui impietosamente veniva evidenziato che nel periodo 2000-2019 il Pil pro capite è declinato solo in Italia e in alcuni paesi africani e due asiatici. A partire dagli anni Novanta siamo entrati in una fase di declino inarrestabile e sono aumentate diseguaglianze e povertà. Possiamo reagire e uscire dalla crisi con politiche pubbliche capaci di creare nuova ricchezza e quindi benessere?
Cenni sul presente
Alcuni dati: deficit al 150 per cento del Pil (Germania 72 per cento, Francia 113); R&S 1,4 per cento del Pil (Germania 3,1; Francia 2,2 per cento); Global Innovation Index: 29° posto nel mondo (Germania 10ª e Francia 11ª); Fortune Global 500, ranking delle imprese mondiali: Italia 5 aziende (Germania 28; Francia 25); capitalizzazione Borsa Milano: 628,6 miliardi (Francoforte 2,2 miliardi; Parigi, ha superato Londra, 2,823 miliardi); tasso di fecondità: 1,25 per cento (Germania 1,53; Francia 1,83). Aggiungiamo: alti livelli di disoccupazione e povertà assoluta; aumento del divario tra nord e sud e tra le classi sociali; evasione fiscale; bassi salari; crescita e ascensore sociale bloccati; insufficiente numero di laureati, spesso costretti a emigrare all’estero – con speculazione e inflazione che hanno eroso il tenore di vita della popolazione.
Ugo Intini, su Avanti! ha scritto: «L’Italia negli ultimi trent’anni ha perso (quanto a Pil) 1/3 del terreno rispetto agli altri grandi paesi europei». Eppure, grazie a pensiero lungimirante dei padri costituenti, che hanno elaborato un modello economico basato su programmazione ed economia mista (artt. 41-43), siamo diventati la quinta/sesta potenza mondiale. Nel 1992 sono iniziate, in curiosa coincidenza: l’inchiesta Mani pulite, che determinerà la dissoluzione del sistema dei partiti e la progressiva delegittimazione delle istituzioni; le privatizzazioni, sostenute soprattutto dal centrosinistra. Sono state (s)vendute banche e grandi imprese dei servizi, della manifattura e della filiera alimentare. «Privatizzare senza una politica industriale era sbagliato», è il giudizio di Giuliano Amato.
Molto altro si potrebbe aggiungere. Noam Chomsky ha indicato la strategia standard utilizzata per privatizzare: «Togli i fondi, ti assicuri che le cose non funzionino, la gente si arrabbia e tu consegni al capitale privato». Magari straniero, aggiungiamo noi. Contestualmente sono iniziate le cessioni di grandi aziende e Pmi private. In tre decenni il paese è stato svuotato – nel silenzio assordante della politica – dello straordinario apparato finanziario, industriale e infrastrutturale (ricordiamo per tutti i casi di Telecom Italia e Autostrade) frutto del genio e del duro lavoro dei nostri padri.
La grande impresa svolge un ruolo strategico: creazione di ricchezza, innovazione, buon lavoro, management e gruppi dirigenti, servizi e modelli organizzativi avanzati, formazione; R&S, nonché traino alle Pmi e finanziamenti alla cultura. L’impoverimento per l’Italia è stato drammatico: headquarter trasferiti all’estero e con essi la catena del valore: management, banche, indotto e rapporti con le università; le fabbriche spesso chiuse o ridimensionate. Luca de Meo, ad di Renault, sul Corriere della Sera, ha affermato: «Non esiste un paese forte senza un’industria forte», ovvero: senza grandi imprese.
L’interesse nazionale
Il pianeta è dominato dagli stati e dalle multinazionali leader nelle tecnologie emergenti, nelle piattaforme digitali e nella connettività. L’Italia – senza voler sminuire il ruolo virtuoso delle piccole multinazionali e delle Pmi tecnologicamente avanzate – esiste nella geotecnologia, e nella geopolitica, internazionale grazie alle aziende partecipate dallo stato: Enel, Eni, Leonardo, Fincantieri, StMicroelectronics, Avio – peraltro sottodimensionate rispetto ai competitori globali. Non tutto è perduto. Il paese è membro G7 e G20; ha posizione centrale nel Mediterraneo; “sede” del Vaticano, con cui sarebbe utile condividere determinati dossier geopolitici; nell’innovazione industriale rimaniamo interpreti ineguagliati dell’“archetipo di Leonardo”, poi aggiornato da Adriano Olivetti: la tecnologia frutto di capacità costruite nei secoli, coniugate con talento, creatività, cuore, umanesimo e innato senso della bellezza; siamo una potenza culturale e sede della Biennale di Venezia. In Francia l’interesse nazionale è perseguito nel quadro di una visione strategica finalizzata a promuovere ruolo geopolitico, economia e benessere – visione che rappresenta un dogma per l’intera comunità nazionale: partiti, istituzioni, finanza, industria, sindacato, ricerca, media, associazionismo. A Parigi nel 2004 è stata creata l’Agence des participations de l’Etat che, si legge sul sito, «incarna lo Stato azionista, investitore azionario in società ritenute strategiche dallo stato, per stabilizzarne il capitale o sostenerle nel loro sviluppo o trasformazione».
Emmanuel Macron ha annunciato l’acquisto del 14 per cento di Edf detenuto dai privati; ricordiamo il caso Cantieri navali di Saint Nazaire-Fincantieri e il ruolo attivo dello stato nell’azionariato, tra gli altri, di Renault (15 per cento,primo azionista) e Stellantis (6,5 per cento). Statalismo o piuttosto perseguimento dell’interesse nazionale?
Quale Italia vogliamo?
La prospettiva dello stato che, nel tempo della globalizzazione e dell’intelligenza artificiale, torni ad investire, in aggiunta a quanto previsto nel Pnrr, nei settori strategici – innanzitutto tecnologie emergenti, infrastrutture di rete e supply chain – e nel capitale umano non rappresenterebbe un adeguamento a quanto già fanno i paesi concorrenti? Perché nel passato i governi hanno rinunciato agli indirizzi di politica industriale, persino quelli rivolti alle “aziende di stato”, e non hanno preso in considerazione la proposta di partecipazione azionaria in Fiat? Ed infine: è immaginabile pensare alla costruzione – su basi flessibili e moderne – di una nuova Iri intesa, inizialmente, come concentrato di competenze industriali e tecnologiche? Il destra-centro, già in campagna elettorale, ha posto il problema del rilancio del ruolo dello stato per sopperire ai fallimenti del mercato e affrontare la competizione internazionale; gli altri schieramenti sono assenti dal dibattito, con il Pd percepito come appiattito sugli interessi dei gruppi di potere privati (viene ricordato, per tutti, il caso Autostrade).
L’Italia ora ha l’obbligo di programmare lo sviluppo nel medio periodo: investimenti nelle tecnologie emergenti e politiche tese alla creazione e integrazione delle infrastrutture – ponte sullo Stretto incluso – convinti che sistemi di connettività efficienti sono essenziali per promuovere competitività, sicurezza, turismo, senso di identità, appartenenza e benessere psicologico, e per combattere declino demografico ed emigrazione. «Restituire la Sicilia all’Italia e l’Italia alla Sicilia sarebbe segno di consapevolezza geopolitica. Lo stretto di Sicilia è uno degli spazi più rilevanti al mondo. Non molto meno dello Stretto di Taiwan. Nel triangolo della competizione fra Stati Uniti, Cina e Russia il controllo di questo braccio di mare al centro del Mediterraneo è essenziale», è la tesi esplicitata da Lucio Caracciolo sulla Stampa.
È urgente poi il recupero della capacità di negoziazione politica con gli altri stati in chiave di reciprocità negli investimenti e nelle collaborazioni industriali, e ciò anche per prevenire quel “fuoco amico” che ha spesso imperversato nella nostra storia.
Ricordiamo la cessione di asset nazionali e l’accordo sulla Via della Seta con la Cina in assenza di contropartite economiche. Appare tuttavia in controtendenza la trattativa su Ita, in cui il governo Meloni – partendo dall’ineludibile il presupposto che un paese del G20 non possa privarsi di una compagnia di bandiera – ambisce a svolgere un ruolo propositivo e di garanzia sul futuro del vettore. Aggiungiamo che il prestigio e l’immagine di un paese costituiscono un requisito indispensabile per partecipare con autorevolezza ai tavoli internazionali in cui di organizza l’ordine mondiale – oltre che un volano per esportare le merci, incentivare investimenti stranieri virtuosi (e non solo speculativi) e incrementare il turismo.
Sulla base di queste considerazioni, non sarebbe utile l’avvio di un dibattito di alto livello e l’elaborazione di un documento che indichi visione e direttrici per perseguire l’interesse nazionale nel medio e lungo periodo?
Solo i paesi forti e coesi sono in grado di offrire un contributo positivo alla comunità internazionale. Ha scritto Lucio Caracciolo su Limes: «L’Italia deve (…) costituirsi in attore geopolitico, che come ogni altro (…), protegge i propri interessi nella competizione e nel compromesso con gli altri. (…). Pretendersi stato per farsi eterodirigere da altri stati, i quali correttamente perseguono le loro priorità, questa sì è impresa eccezionale».
Occorre recuperare il tempo perduto e infondere fiducia e ottimismo soprattutto ai giovani: «La storia corre e non aspetta l’Italia», è la chiosa del direttore di Limes.
Giuseppe Rao è consigliere della presidenza del Consiglio dei ministri. Le opinioni qui espresse sono a titolo personale
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