- L’inflazione a giugno nell’Eurozona, al 5,5 per cento, anche se in discesa dal 6,1 di maggio, rimane troppo alta rispetto all’obiettivo del 2 per cento. La Bce ha già annunciato un aumento dei tassi nella prossima riunione del 27 luglio. Potrebbe non essere l’ultimo.
- L’Italia ha un problema in più perché la sua inflazione rimane superiore a quella media dell’area euro. I settori che più hanno contribuito sono i pochi già identificati: l’energia, i servizi finanziari, il trasporto aereo.
- Ma l’elevata inflazione italiana dipende anche da debolezze strutturali del Paese: servirebbe una volontà di ridefinire le strategie delle partecipazioni pubbliche, dove oggi prevale la lottizzazione delle nomine.
L’inflazione a giugno nell’Eurozona, al 5,5 per cento, anche se in discesa dal 6,1 di maggio, rimane troppo alta rispetto all’obiettivo Bce del 2 per cento. Anche al netto delle componenti più volatili (energia ed alimentari) era al 5,4, e in crescita.
La Bce ha già dichiarato che aumenterà ulteriormente i tassi nella prossima riunione del 27 luglio, e potrebbe non essere l’ultimo aumento visto che i mercati scontano una fase prolungata di tassi elevati.
I tassi negativi sui depositi presso la Bce che hanno prevalso fino a un anno fa erano totalmente incoerenti con un’economia in ripresa, e ai livelli attuali (3,5 per cento) rimangono inferiori alla crescita dei prezzi. Ma quello che conta non è il tasso reale (al netto di inflazione) calcolato con l’inflazione attuale, bensì con la crescita dei prezzi che la Bce si attende in futuro.
L’aumento atteso a luglio dello 0,25 per cento porterebbe il tasso Bce sui depositi al 3,75, superiore al 3 per cento della crescita dei prezzi previsto dalla Banca Centrale nel 2024. Purtroppo non sappiamo quale sia il tasso reale che la Bce ritiene compatibile alla lunga con il suo obiettivo di inflazione e neppure quale modello utilizzi per prevedere la dinamica futura dei prezzi. La Bce ha abbandonato l’uso di modelli per valutare gli effetti che la politica monetaria avrà sull’inflazione e prende invece le decisioni in base ai dati macroeconomici e finanziari che vengono via via resi noti (data dependent).
Ma poiché la politica monetaria ha effetti ritardati nel tempo, questo equivale ad ammettere che non si è in grado di prevedere l’inflazione, né è possibile valutare i l’adeguatezza delle decisioni della Banca Centrale per raggiungere l’obiettivo del 2 per cento, e i rischi che questo comporta. Pianificare il futuro sulla base di dati passati amplifica pertanto il rischio che la Bce aumenti i tassi troppo e troppo a lungo, mandando l’Eurozona in recessione, che peraltro in Germania e in diversi segmenti industriali è già una realtà.
Ma c’è anche il rischio opposto, che l’inflazione duri a lungo, se il tasso reale non è sufficientemente elevato, erodendo il potere di acquisto di salari e pensioni, e imponendo così una tassa iniqua. Le dichiarazioni della Bce evidenziano come la Banca Centrale ritenga che il rischio di recessione sia inferiore rispetto a quello che l'inflazione si radichi nelle aspettative. Ma in assenza di un modello della Bce per prevedere l’inflazione è impossibile valutare la coerenza delle sue decisioni.
La genesi
Manca anche una valida spiegazione della genesi del fenomeno inflazionistico che stiamo vivendo e come si sia evoluto in questi anni. Difficile contrastare un fenomeno di cui non si ha una piena comprensione. Inizialmente la banca centrale aveva additato le disfunzioni nelle filiere produttive e nella logistica dovute alla pandemia, che creavano scarsità di beni intermedi e componenti: ma la situazione si è normalizzata. Poi l’eccesso di domanda provocato dal recupero dei consumi post-covid: che persiste per la domanda di viaggi e tempo libero, ma destinato ad esaurirsi con l’estate.
Poi il caro energia causato dalla guerra in Ucraina: ma ora i prezzi sono crollati. Poi il rischio che l’inflazione sia alimentata dalle aspettative: che però rimangono ben ancorate, anche a detta della stessa Bce. Poi il rischio delle spinte salariali per recuperare il potere di acquisto perduto: di cui però non c’é traccia. Infine, l’inflazione da profitti, ovvero l’aumento dei listini per mantenere i margini a fronte di una riduzione delle quantità vendute: che presuppone un potere di mercato che solo alcune aziende posseggono.
L’inflazione attuale è molto diffusa, basti pensare che in solo due delle venti macro categorie merceologiche in cui ho diviso l’indice armonizzato europeo, la crescita dei prezzi è inferiore o uguale al 2 per cento: spese per educazione e comunicazioni, in Italia; comunicazioni e spese per il trasporto nell’Eurozona. Un tale livello di diffusione implica che la causa dell’inflazione non è unica, ma una combinazione delle tante spiegazioni via via addotte.
Non ci può dunque essere un solo strumento, i tassi, per contrastarla: basti pensare per esempio alla politica tariffaria nei settori regolamentati; alla concorrenza nei settori con alte barriere all’ingresso e posizioni dominanti; alla politica fiscale straordinariamente espansiva in tutti questi anni, che ha causato un forte aumento della domanda aggregata che la politica monetaria vuole contrastare con l’aumento dei tassi.
Un altro elemento critico è la divergenza dell’inflazione nei vari paesi: se a giugno l’inflazione è salita al 6,8 per cento in Germania, in Italia è scesa, ma al 6,7, in Francia è al 5,3 e in Spagna addirittura all’1,3. Ma la politica monetaria è unica per tutti.
Il caso Italia
L’Italia ha un problema in più perché la sua inflazione rimane superiore a quella media dell’area euro: 6,7 per cento rispetto a 5,5. In passato era l’opposto. Per comprenderne le ragioni basti pensare che la maggiore inflazione rispetto all’Eurozona a maggio (ultimo dato disponibile) era dovuta ad appena quattro settori su 20: il costo di elettricità, gas e carburanti, i servizi finanziari, il costo dei biglietti aerei, e in misura minore le spese per la cultura e ricreazione.
Il dato mensile di inflazione è tuttavia il risultato del confronto esclusivamente tra un mese e lo stesso mese dell’anno precedente. Ma la dinamica dei prezzi attuale è un fenomeno sviluppatosi nel tempo: il risultato della pandemia, che ha soppresso la domanda di alcuni beni; della straordinaria espansione fiscale e monetaria per sostenere i redditi; della guerra e della crisi energetica; e, in senso opposto, del più rapido aumento dei tassi dagli anni ottanta. L’inflazione andrebbe quindi analizzata nell’arco degli ultimi quattro anni perché i movimenti al rialzo o al ribasso di alcuni prezzi potrebbero essere l’immagine speculare di quanto accaduto in precedenza, discostandosi temporaneamente dal trend.
Per capire l’origine dell’eccesso di inflazione italiana rispetto alla media europea ho analizzato la crescita media annua delle venti macro categorie dell’indice dei prezzi dal maggio 2018, e verificato quali siano cresciuti sostanzialmente più del 2 per cento nel periodo. In questi quattro anni l’indice generale dei prezzi è salito del 4 per cento medio annuo.
Ma i settori che più hanno contribuito all’ondata inflazionistica sono i pochi già identificati, mettendo in evidenza alcune criticità specifiche del nostro paese: il più forte incremento dei costi energetici, prova di una politica energetica fallimentare, e che chiama in causa la politica delle partecipazioni pubbliche e la regolamentazione, visto che il settore è dominato da aziende controllate da Stato e enti locali; il maggior costo dei servizi finanziari, settore dove la concorrenza e gli interessi dei consumatori sono stati troppo spesso sacrificati a favore della stabilità; e, ironicamente, il costo del trasporto aereo, segno evidente dell’incapacità di chi si è avvicendato nella gestione di Alitalia, e dello Stato azionista, più volte fallita, proprio nel settore dove i prezzi hanno subito i maggiori incrementi.
Non può essere dunque la sola crescita dei tassi a salvare l’Eurozona. Ed è reale il rischio che la Bce, dopo aver tenuto i tassi troppo bassi troppo a lungo, ora ecceda nel senso opposto causando una recessione in tutta l’area. Ma l’elevata inflazione italiana dipende anche da debolezze strutturali del Paese: per questo ci vorrebbe la volontà di ridefinire le strategie delle partecipazioni pubbliche, dove oggi prevale la lottizzazione delle nomine; una regolamentazione più incisiva; meno dirigismo e più concorrenza per smantellare interessi radicati.
Oltre a una politica fiscale che da anni dispensa bonus, sussidi, incentivi e spesa improduttiva contribuendo a mantenere la domanda in eccesso a quanto compatibile con la stabilità dei prezzi. Ma non sono queste le priorità del governo.
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