- Nella legge di bilancio ci sarà la copertura del buco dell’Inpgi per permettere alla cassa dei giornalisti di essere accorpata all’Inps, ma mantenendo l’autonomia.
- Solo nei prossimi tre anni dal 2021 al 2023, la cassa di previdenza accumulerebbe un buco da 675 milioni di euro, dopo il rosso da 254 milioni del 2020.
- Il crack è dovuto all’avvitarsi di riduzione del corpo delle redazioni, calo dei contratti stabili, prepensionamenti utili agli editori e privilegi della generazione dei baby boomer.
Chissà quanti di coloro che ricevono dall’Inpgi ricchi assegni pensionistici hanno scritto nella loro carriera articoli indignati sulla mala gestione di banche o compagnie aeree i cui fallimenti sono stati pagati dallo stato. Oggi, però, lo stato deve correre a salvare la cassa di previdenza dei giornalisti che continua ad accumulare rossi sempre più profondi: una voragine che si allarga al ritmo di un miliardo ogni quattro anni.
Per evitare il fallimento, il governo di Mario Draghi inserirà, infatti, nella legge di bilancio un regalo da centinaia di milioni di euro. L’obiettivo è garantire il passaggio dell’Inpgi sotto il grande ombrello della previdenza generale dell’Inps con un impatto “neutro” sui bilanci, almeno per i primi anni.
Tuttavia, l’ingresso dei giornalisti nella previdenza generale avverrà mantenendo per la cassa caratteristiche di autonomia, e quindi condizioni più favorevoli degli altri pensionati, come è già previsto per altre categorie di professionisti.
Tanto per dire, il passaggio al sistema contributivo per i giornalisti era avvenuto a partire dal 2017, con buona pace dei giovani reporter pagati meno e chiamati a contribuire più dei loro coetanei agli assegni delle generazioni precedenti.
675 milioni in tre anni
I numeri del bilancio Inpgi sono fin troppo eloquenti: solo nel 2020 le perdite ammontano a 254 milioni di euro. Il bilancio preventivo per il 2021 indica ancora una riserva di circa 907 milioni di euro, per pagare le pensioni di invalidità, vecchiaia e sopravvissuti, le più gravose dal punto di vista degli squilibri di bilancio.
Il problema è che la differenza tra entrate e spese è ormai tale che i fondi si estinguerebbero in un arco di tempo molto breve. Solo nei prossimi tre anni l’Inpgi prevede di accumulare un rosso di altri 675 milioni di euro: 225 milioni per il 2021, 221 milioni nel 2022 e 233 milioni nel 2023.
Tra il 2019 e il 2020, complice il minor numero di occupati, cioè la riduzione della forza lavoro e il minor numero di giornalisti con contratto da dipendente o collaboratore regolare, il rapporto tra spese per gli assegni e entrate è passato dal 138 al 182 per cento. Considerando, però, solo le prestazioni per le pensioni di vecchiaia, invalidità e sopravvissuti - le prime, legate al raggiungimento della pura età anagrafica, la fanno da padrone - si arriva al 201 per cento: un euro di cassa per ogni due euro che si deve spendere per pagare gli assegni.
Oltre alla riserva da 900 milioni, resta poco altro: la liquidità a fine anno dovrebbe essere di 41milioni euro. Una somma pari ai costi di struttura, di cui fino all’anno passato 17 milioni di euro, ora ridotti, servivano a pagare la spesa per i dipendenti. Mentre la spesa per gli organi collegiali ammonta a 639 mila euro, a cui vanno aggiunti 245 mila euro per il collegio sindacale e 223 mila euro di rimborsi spese.
I tentativi falliti
Di fronte a questi numeri, cioè a un bilancio che annuncia la bancarotta in arrivo, l’Inpgi negli ultimi anni ha tentato tutte le strade per evitare il commissariamento, in teoria obbligatorio per legge.
Si è appellata a diversi governi, riuscendo a ottenere continui rinvii e soprattutto un tavolo per affrontare la crisi. La strada più sciagurata che si voleva percorrere era quella di inglobare l’Inpgi 2, cioè la cassa per i giornalisti “autonomi”, che non hanno l’azienda a pagare loro i contributi. L’Inpgi 2, per coerenza con le politiche di welfare degli ultimi vent’anni fedeli al motto chi ha meno otterrà meno, fa pagare contributi molto più onerosi a una platea di precari o collaboratori saltuari e infatti ha un attivo di 40 milioni di euro.
Alla ricerca di una soluzione in extremis, poi, il consiglio della cassa di previdenza ha scommesso sull’idea di allargare la platea dei contribuenti: cioè per inglobare altre categorie capaci di aumentare le entrate, dai poligrafici ai comunicatori. Tutti hanno rifiutato. E così come se fosse una Monte dei paschi di Siena qualsiasi ha dovuto arrendersi all’unico offerente, non Unicredit, ma l’Inps di Pasquale Tridico.
Mentre il governo apre i cordoni della borsa in soccorso a una cassa che paga ottime pensioni per i cronisti dell’età dell’oro, toccherà alla Ragioneria dello stato decidere se anche l’Inpgi 2 seguirà la stessa sorte. La soluzione Inps, pure generosa, non piace ai sindacati che la ritengono una perdita di autonomia, alcuni addirittura una minaccia per la libertà di stampa, una libertà che verrebbe da dire si ottiene maggiormente con modelli di business sostenibili. Di certo, festeggiano gli editori che da anni utilizzano sistematicamente lo strumento dei prepensionamenti per diminuire gli stipendi che devono pagare a fine mese, caricandoli sul bilancio della cassa e senza tuttavia, salvo poche eccezioni, riuscire a chiudere bilanci in attivo: insomma, i principali complici dello sbilanciamento del sistema previdenziale.
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