La riduzione dell’orario di lavoro sembra tornata al centro del dibattito pubblico. O meglio, si è ricominciato a parlare di una formula molto specifica, probabilmente irrealizzabile ma semplice e immediata da comunicare: la settimana corta. Tutta la criticità della discussione sta proprio qui, nel ridurre il tema della rimodulazione o anche della diminuzione dell’orario di lavoro, a una proposta che pare essere più una bandiera che un vero obiettivo da raggiungere. Invece, quello dell’orario di lavoro è un tema che meriterebbe una discussione più ampia e articolata, a partire da diversi elementi che stanno caratterizzando le trasformazioni in essere.
Sappiamo bene come la disponibilità tecnologica oggi sia tale da potersi tradurre in guadagni di produttività che troppo spesso non portano a una redistribuzione dei margini ad essi connessi. Così come sappiamo bene, anche se è scomodo da affermare, che una parte dell’utilizzo del lavoro agile dalla pandemia in poi (ma forse anche prima) può essere considerata una sperimentazione della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Per contro, la forte scarsità di manodopera, che verrà sempre più aggravata dall’andamento demografico, potrebbe far pensare che l’urgenza futura non sarà tanto quella di lavorare meno ma di lavorare di più proprio per riequilibrare la mancanza di persone. In questo quadro apparentemente contrastante si devono giocare analisi e soprattutto sperimentazioni per verificare cosa è possibile fare.
Gli esempi eclatanti apparsi sulla stampa negli ultimi mesi sono a volte ingannevoli, perché raccontano di sperimentazioni della riduzione dell’orario di lavoro in poche aziende, che probabilmente già volevano farlo, con margini di produttività e di utile molto elevato. Al contrario vi sono esempi internazionali di sperimentazioni più graduali, nelle quali si inizia a considerare l’orario di lavoro come elemento di scambio all’interno delle logiche contrattuali. Per esempio, i metalmeccanici tedeschi nel 2018 hanno ottenuto la possibilità di convertire il proprio premio annuale in ore di lavoro da scalare all’orario normale. L’orario non diventa più un elemento intoccabile quindi e anche le imprese implementano flessibilità organizzative, pur a parità di costi, in questo caso.
In altri casi specifici alcune imprese hanno avviato sperimentazioni sulla riduzione dell’orario di lavoro non concentrate in un unico giorno, come vorrebbe la proposta rilanciata anche da Elly Schlein recentemente, ma modulate a seconda delle esigenze produttive e organizzative. La formula fissa infatti, risulterebbe impraticabile proprio per quelle realtà, pensiamo all’industria, nella quale l’organizzazione del lavoro molto strutturata renderebbe sulla carta possibili delle rimodulazioni, ma allo stesso tempo queste sarebbero impossibili se implicassero una riduzione così marcata di manodopera in una giornata unica. Poco successo ha avuto, secondo i dati disponibili, il tentativo messo in pratica in Italia di ridurre l’orario di lavoro mediante la seconda edizione del Fondo nuove competenze, che consentiva una copertura totale dei costi delle ore non lavorate nel caso di riduzione di orario di lavoro a parità di salario (anche con sperimentazioni triennali).
Quello che occorre in questa fase è aprire un dibattito serio sull’orario di lavoro. La sfida è quella, nei settori dove questo è possibile, di iniziare a non considerare l’orario come l’architrave sulla quale poggia tutta l’organizzazione del lavoro. E di iniziare a costruire modelli organizzativi che, non peggiorando i carichi e non rendendo il lavoro insostenibile, si basino di più sull’autonomia organizzativa dei singoli. Ma per far sì che questo accada e non si ripetano quelle dinamiche che sono state definite “trappola della flessibilità”, dove la maggior autonomia si traduce in maggior lavoro, è necessario che questi processi vengano definiti e monitorati per via collettiva, e non lasciati al singolo rapporto impari tra datore di lavoro e lavoratore. Il sindacato dovrebbe essere quindi il primo soggetto ad accettare questa sfida, anche uscendo dalle zone di confort dell’organizzazione tradizionale.
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