Il Piano nazionale di ripresa e resilienza non è una panacea. La sua efficacia dipenderà dal rispetto delle regole che governano il mercato e l’azione pubblica. In Italia, però, le leggi sono spesso poco rispettate e quindi poco credibili. Una riflessione, e una proposta, sui limiti dello sviluppo nel nostro Paese
A metà maggio la Commissione europea ha pubblicato le stime future del Pil dell’Ue. Per l’Italia c’è moderato ottimismo: la crescita media nel biennio 2024-25 si attesta all’1 per cento. Queste proiezioni riflettono però anche due spinte significative e temporanee: il bonus 110 per cento e gli investimenti del Pnrr. Né pare che in seno al governo Meloni ci sia stata una vera svolta nella comprensione delle cause del trentennale declino dell’Italia, o nell’attuazione di adeguate misure correttive. Nella sua azione spiccano invece i condoni (edilizi e fiscali), le misure non progressive (il forfettario per gli autonomi), le liberalizzazioni di facciata (si pensi alle ormai leggendarie licenze di tassisti, parcheggiatori e balneari).
Forzando un po’ la mano, possiamo classificare le molteplici analisi del declino italiano in due scuole di pensiero: una più liberista, che guarda al malessere del sistema imprenditoriale, ovvero al lato dell’offerta; e una più interventista, che guarda invece alla debolezza della domanda aggregata.
Dal lato dell’offerta, Peter Hall e David Soskice analizzano le relazioni che un’impresa intrattiene con i manager, la forza lavoro, gli azionisti, i clienti e le altre aziende del settore. Gli autori individuano due «varietà di capitalismo» idealtipiche: liberale e coordinata. La prima è basata sul libero mercato, nel quale regna la competizione tra le imprese; gli esempi più chiari sono gli Stati Uniti e le democrazie anglosassoni. La seconda varietà di capitalismo è quella basata sul coordinamento strategico tra datori di lavoro e lavoratori, come accade in Germania, nel resto dell’Europa continentale, e anche in Italia, sebbene con modalità diverse e generalmente meno efficaci.
Questa prima scuola di pensiero – legata soprattutto alla Bocconi, per intenderci, e ad autori quali Francesco Giavazzi o Luigi Zingales – ritiene che la via per invertire il declino dell’Italia sia scatenare le forze di mercato.
La forza del mercato
Secondo questa analisi, sono tre gli aspetti che ostacolano la crescita della produttività. Primo: in Italia è complicato fare impresa. L’accesso al credito, soprattutto per le piccole e medie imprese, è limitato; la tassazione è elevata e complessa, come più volte sottolineato dalla Commissione europea; il recupero crediti è frenato da processi giudiziari eccessivamente lenti; la concorrenza è frenata da formidabili barriere all’entrata.
Secondo: gli skills dei lavoratori italiani sono insufficienti e gravati dalla fuga dei cervelli. Non solo abbiamo pochissimi laureati nella fascia d’età dai 25 ai 34 (meno di ogni altra economia Ue, a parte la Romania), ma c’è anche insufficiente offerta di lavoro qualificata. E ciò sia perché a crescere sono soprattutto settori a bassa produttività e innovazione, come il turismo, sia per il terzo fattore che deprime la produttività: la scarsa attenzione alla ricerca, che ci allontana dalla cosiddetta «frontiera tecnologica» (nel settore dell’intelligenza artificiale, per esempio).
Un dato su tutti: l’investimento lordo in ricerca e sviluppo nel 2022 in Italia ammontava all’1,33 per cento del Pil contro una media Ue del 2,24 per cento.
Conta la domanda
L’altra scuola di pensiero, rappresentata da studiosi quali Lucio Baccaro e Jonas Pontusson, individua molteplici «modelli di crescita» basati sull’importanza delle componenti della domanda aggregata. Secondo questa lettura, il consumo delle famiglie – finanziato dai salari, ma anche dall’indebitamento privato – è la forza trainante dell’economia del Regno Unito, mentre le esportazioni svolgono tale ruolo in Germania. Con le dovute differenze, i modelli di crescita svedese e italiano sono fondati su combinazioni di consumi interni ed esportazioni. Tuttavia, mentre l’efficienza caratterizza l’economia svedese, in Italia la combinazione delle stesse componenti risulta inefficace e produce stagnazione.
In un recente studio, Dario Guarascio e Francesco Zezza della Sapienza (con Philipp Heimberger) hanno applicato tale approccio al caso italiano. Essi individuano tre peccati originali: 1) il divario nello sviluppo tra Nord e Sud, che è andato ampliandosi dalla metà degli anni Settanta; 2) la scarsa produttività delle piccole e piccolissime imprese, che tipicamente utilizzano pratiche gestionali obsolete e non innovano; 3) la concentrazione della produzione in settori ad alta intensità del lavoro, quali ad esempio il tessile e il turismo.
Crisi all’italiana
Prima delle molteplici crisi degli anni Novanta, tale sistema si reggeva su alcuni meccanismi compensativi: la svalutazione della lira quale strumento principe per competere con l’estero, e la politica industriale (spesso condotta tramite imprese statali). Ma quei meccanismi sono ora del tutto incompatibili con la globalizzazione e l’integrazione europea.
Da un lato, i capitali internazionali si riversano in quelle giurisdizioni che assicurano agevolazioni fiscali e regolamentazione snella, caratteristiche per le quali l’Italia non brilla. Dall’altro, l’adesione all’euro non solo elimina la possibilità di svalutare la propria moneta, imponendo così la moderazione salariale per rimanere competitivi, ma prevede anche regole restrittive sugli aiuti di stato e le politiche industriali. Tale doppio vincolo fa sì che due componenti fondamentali della domanda aggregata (i salari e gli investimenti pubblici) vengano strozzate, contribuendo così al declino degli ultimi tre decenni.
Sebbene questa suddivisione in scuole di pensiero semplifichi un dibattito accademico più complesso, essa è utile per capirne le ricadute politiche. A seconda dell’inclinazione ideologica, i nostri partiti hanno attinto selettivamente all’una o all’altra scuola per formulare le loro strategie di rilancio per l’Italia. Per lungo tempo, la sinistra ha sostenuto la necessità di aumentare gli investimenti pubblici, mentre la destra – presunta liberale – ha insistito sulla deregolamentazione e decentralizzazione al fine di eliminare gli ostacoli alla ripresa. Raramente tali proclami si sono tradotti in azioni concrete: da un lato è mancata la volontà politica, dall’altro le risorse.
In questo senso, il Pnrr rappresenta una novità significativa per il Paese. Con 194,4 miliardi di euro a disposizione, pari al 10,9 per cento del Pil, la tesi della carenza di risorse si è sgonfiata, almeno temporaneamente. Quei fondi hanno reso più digeribili le riforme concordate. Con Draghi, l’Italia ne ha promesse molte, alcune particolarmente ambiziose, quali la riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia. Eppur si muove, si può concludere, a discapito delle critiche mosse verso il contenuto di queste misure e la mancanza di decreti attuativi.
Tolleranza e condoni
Il Pnrr, tuttavia, non è una panacea. La sua efficacia dipenderà dal rispetto delle regole che governano il mercato e l’azione pubblica. In Italia, però, le leggi sono spesso poco rispettate e quindi poco credibili. Gli indicatori disponibili, come il Rule of Law della Banca Mondiale, mostrano che, al momento, l’Italia è più vicina alla media dei Balcani che alle economie dell’Europa occidentale. Questo dato è corroborato da altri indicatori, come il divario tra Iva dovuta e Iva pagata, che in Italia è del 21 per cento rispetto al 7-9 per cento di Francia, Germania e Spagna. L’evasione dell’Irpef sul lavoro autonomo e di impresa raggiunge il 68,3 per cento.
Quest’illegalità di massa è alimentata anche da una radicata politica di tolleranza, inaudita nelle democrazie avanzate, che in mezzo secolo ha prodotto numerosissimi condoni. Il governo Meloni ne ha concessi tre: due fiscali e uno edilizio. Tutto ciò minaccia l’efficacia del Pnrr.
Nessuna delle principali scuole di pensiero ignora il problema dell’osservanza della legge, ma nessuna lo mette al centro della propria analisi. La letteratura teorica e la ricerca empirica suggeriscono che l’innovazione, vero motore della crescita, sia favorita da elevati livelli di rispetto delle regole. Si può discutere dell’importanza di questa variabile, ma è indubbio che l’illegalità di massa – e quella delle élite – deprima la crescita, rispetto a paesi dove le regole sono più credibili.
Questo tema potrebbe quindi essere patrimonio comune delle due scuole di pensiero. Se entrambe lo sottolineassero, inoltre, esso potrebbe imporsi al dibattito pubblico e ai partiti, elevando il costo politico della tolleranza per l’illegalità.
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