- 320 milioni di euro distribuiti ai comuni per interventi di efficienza energetica su edifici pubblici. Apparentemente un successo il decreto del ministero dell’Ambiente, in realtà i risultati sono deludenti
- I comuni non sono tutti uguali, assegnare risorse per piccoli progetti in ognuno degli 8mila enti locali non aiuta ad affrontare le priorità e a premiare interventi che davvero consentano di premiare la riduzione di consumi ed emissioni
- Il governo invece di chiedere proroghe a Bruxelles dovrebbe fissare obiettivi e criteri con cui spendere i tre miliardi di euro di RepowerEU, aprire un confronto con i comuni e il parlamento
Mentre continua il confronto sul Pnrr, e ci si interroga su ritardi e capacità di spesa delle risorse pubbliche, può essere interessante analizzare i provvedimenti più recenti che qualche risultato lo hanno già prodotto. Un esempio sono i 320 milioni di euro che il ministero dell’Ambiente aveva stanziato nella precedente legislatura, a valere su fondi della programmazione europea, per interventi di efficienza energetica su edifici dei comuni.
Apparentemente un’operazione esemplare, con bando aperto da novembre 2022 a marzo di quest’anno, e che da un punto di vista della spesa pubblica rappresenta un indubbio successo visto che tutte le risorse sono state assegnate. Se però si va a guardare gli interventi finanziati il giudizio cambia e si comprendono i limiti rispetto ai due grandi obiettivi che un paese come l’Italia dovrebbe porsi con queste politiche: ridurre significativamente i consumi energetici degli edifici, eliminando ovunque possibile l’utilizzo del gas per le tante ragioni che conosciamo, e poi intervenire laddove i problemi sono maggiori. Purtroppo, i criteri di accesso al finanziamento stabiliti nel bando andavano in un’altra direzione.
Criteri fallaci
Primo esempio, il decreto prevedeva un massimo di cinque interventi per comune, secondo una logica cara all’Anci per cui bisogna distribuire in modo equo le risorse tra gli ottomila enti locali italiani. Il problema è che i comuni non sono tutti uguali. A Milano e Napoli gli edifici pubblici sono diverse centinaia, tra scuole, uffici, edilizia pubblica, biblioteche.
Il VII municipio di Roma, quello di Cinecittà, ha più abitanti dei 136 comuni della regione Molise messi assieme, con più di 150 scuole ma conta come un quartiere della capitale che, nella logica di uno vale uno, poteva presentare richieste per non più di cinque edifici in tutto. Sempre in una logica di distribuzione a pioggia, il secondo criterio prevedeva una spesa massima di 215mila euro ad intervento. Il problema è che nel 2023 un approccio di questo tipo è sbagliato, perché ogni progetto di riqualificazione energetica dovrebbe puntare a raggiungere il massimo risultato possibile in termini di riduzione dei fabbisogni termici.
Ma con quella cifra, se si interviene ad esempio su un liceo o una sede amministrativa, al massimo si cambiano gli infissi e qualche volta anche la caldaia. Il rapporto spesa pubblica-benefici ambientali è imparagonabile con quello di un intervento in cui interventi di efficienza, sostituzione degli impianti e integrazione del solare viaggiano assieme.
Certo, introdurre un approccio di questo tipo avrebbe ridotto il numero degli interventi e obbligato a fare scelte, ma proprio qui sta il punto. Soprattutto, se si considera il terzo criterio fissato dal bando: l’obbligo del certificato di agibilità per gli edifici su cui si interviene. Apparentemente una scelta di buon senso, che però conferma come nei ministeri non si conosca la situazione del paese, non ci si confronta con imprese e amministrazioni locali.
Di questo documento sono infatti privi larga parte degli edifici in Italia, e proprio per questa ragione fu eliminato come obbligo per l’accesso agli incentivi del superbonus per le ristrutturazioni. La conseguenza è che i comuni hanno indirizzato l’attenzione sugli edifici che ne disponevano, che sono quelli più nuovi e in migliore stato di salute piuttosto che quelli più degradati e dove aveva più senso intervenire. E tanti altri, di fronte a questi criteri, hanno preferito rinunciare.
Svelare le carte su RepowerEU
Questo decreto, nel suo piccolo rispetto alla montagna di risorse del Pnrr, qualche lezione la offre rispetto alla necessità di porre attenzione alla qualità e efficacia della spesa pubblica. Capita purtroppo raramente nel nostro paese, ma analizzare i risultati è fondamentale anche solo per ricordarsi perché si fanno le cose, per quale ragione si spendono i soldi pubblici. Perché non basta essere soddisfatti di averli spesi, in particolare quando gli obiettivi sono di così grande importanza e attualità. Eppure, un importante segnale positivo questo decreto lo aveva offerto e da qui bisognerebbe ripartire.
Ed è quello di un rapporto diretto tra ministeri e comuni, saltando l’intermediazione delle regioni che sono, purtroppo, quasi sempre una garanzia di dispersione a pioggia delle risorse, incapacità di spesa e ritardi. La prima occasione utile dovrebbero essere i tre miliardi di euro che l’Italia ha a disposizione grazie a RepowerEu, per interventi in campo energetico da spendere entro il 2026. Sarebbe importante che si avviasse una discussione su quali obiettivi si vogliono portare avanti e con quali criteri di selezione. Il governo per ora non ne parla e ha rinviato la data di presentazione delle proposte a Bruxelles. Purtroppo, non è un buon segnale.
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