Giorgetti punta a vendere asset di stato per tagliare il debito pubblico. Ma i compratori scarseggiano e l’incasso è tutt’altro che certo
Lo ha detto Giancarlo Giorgetti, al termine del Consigli dei ministri che mercoledì sera ha dato via libera alla Nadef, il documento che riassume le previsioni del governo sull’andamento prossimo venturo dell’economia e dei conti pubblici. Per finanziare il taglio del debito si pensa a un programma di privatizzazioni che dovrebbe fruttare all’incirca “l’ 1 per cento del Pil nell’arco di tre anni, dal 2024 al 2026”, ha puntualizzato il ministro.
Un annuncio sorprendente, non tanto per l’argomento trattato, perché il tema delle privatizzazioni è un fiume carsico che riemerge di tanto in tanto nel dibattito politico. La sorpresa deriva dall’entità della somma tirata in ballo da Giorgetti. L’1 per cento del Pil vale 19 miliardi. A tanto ammonta, quindi, l’incasso ipotizzato dal titolare del Mef da realizzare entro il 2026 grazie alla vendita di attività dello Stato.
Otto anni di stop
Possibile? Davvero il governo è in grado di rilanciare un treno che è praticamente fermo dal lontano 2015? All’epoca il governo di Matteo Renzi quando lo Stato piazzò in Borsa una quota di minoranza delle Poste e poi un pacchetto azionario del 5,7 per cento dell’Enel, due maxi-collocamenti che fruttarono 5,6 miliardi. Poca cosa, se paragonate alle ambizioni di Giorgetti, che mira addirittura a moltiplicare per tre (quasi quattro) i proventi realizzati in quella lontana stagione politica.
Va ricordato che in tempi più recenti Roma si è mossa in direzione del tutto opposta, rilevando il controllo di Alitalia (ora in via di parziale cessione a Lufthansa), di Autostrade (statalizzata dopo la tragedia del Ponte Morandi) e Banca popolare di Bari (salvata dal dissesto con fondi pubblici). Neppure due mesi fa il governo ha poi annunciato di essere pronto a investire fino a 2,2 miliardi per comprare il 20 per cento della rete di Tim, una somma a cui vanno aggiunti centinaia di milioni destinati all’Ilva di Taranto ora controllata da Arcelor-Mittal.
Insomma, il governo annuncia a parole una politica, che poi viene smentita dai fatti. In queste ore sui mercati finanziari ci si interroga su quali potrebbero essere le società in rampa di lancio per la vendita, sempre ammesso (ma a questo proposito lo scetticismo è molto diffuso) che il ministero dell’Economia abbia già elaborato un piano preciso in proposito.
Il caso Mps
Finora tute le attenzioni degli investitori, anche internazionali, si sono concentrate sul Monte dei Paschi, salvato anni fa dal dissesto grazie all’intervento del governo che ora tramite il Mef controlla la quota di maggioranza dell’istituto, il 64,2 per cento. Al momento sembra molto difficile trovare un acquirente per l’intera partecipazione dello stato.
Nel recente passato sono già fallite le nozze con Unicredit, nonostante i forti incentivi all’acquisto concessi al compratore. Adesso, però, i conti di Mps sono in netto miglioramento e quindi, in teoria, non sarebbe impossibile trovare una platea di investitori disposti a rilevare piccoli pacchetti azionari, mentre lo stato resterebbe azionista di riferimento con una partecipazione anche di poco inferiore alla maggioranza assoluta.
In queste settimane le ipotetiche manovre azionarie intorno a Mps hanno provocato fiammate al rialzo con rapide cadute nelle quotazioni dell’istituto. Resta un fatto, però: la banca senese vale in Borsa 3 miliardi e quindi la vendita di quote comprese tra il 10-20 per cento frutterebbe al massimo 600 milioni. Una somma molto lontana dai 19 miliardi che il governo, secondo Giorgetti, punta a incassare entro il 2026.
Vendite difficili
La lista delle partecipate di Stato è ancora lunga. Comprende altre società quotate in Borsa come Enel, Eni, Poste, Leonardo, Enav, STMicroelectronics. Nei due gruppi energetici i margini di manovra appaiono ridotti. Nell’Enel la quota che fa capo al Mef non supera il 23,6 per cento e vale 14 miliardi, mentre nel caso dell’Eni la partecipazione del ministero dell’Economia è pari al 4,66 per cento per un valore di 2,3 miliardi. Se a vendere azioni Eni fosse l’altro socio pubblico, cioè la Cassa depositi e prestiti con il suo 27 per cento, il ricavato non andrebbe a beneficio del bilancio dello Stato, perché Cdp, secondo le regole Ue, è esterna al perimetro della Pubblica amministrazione. Anche se lo stato facesse un passo indietro, quindi, il ricavato di un’ulteriore parziale privatizzazione di Eni e Enel non supererebbe una manciata di miliardi, meno di cinque, probabilmente. E andrebbe comunque risolta la questione cruciale di come mantenere il controllo pubblico su asset strategici.
Vale un discorso simile anche per le altre aziende partecipate. Un’eventuale parziale cessione pone problemi politico-strategici (Leonardo, STMicroelectronics, Poste) oppure frutterebbe relativamente poco (Enav, Mps). E allora, di nuovo, come si arriva ai 19 miliardi di cui parla Giorgetti? In una recente intervista il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani ha ipotizzato di privatizzare la gestione di alcuni grandi porti, ma è stato subito rimbrottato dal collega Matteo Salvini. In teoria potrebbe essere dismessa anche una parte dell’enorme patrimonio immobiliare pubblico. Negli anni scorsi sono stati annunciati diversi programmi di cessione dei palazzi di stato, programmi che però sono rimasti in gran parte sulla carta per mancanza di compratori.
Se queste sono le premesse, va da sé che anche l’annuncio dei Giorgetti rischia di fare da titolo a un libro dei sogni. Molto più concreta, invece, è la montagna del debito pubblico, che come conferma la Nadef appena approvata l’anno prossimo dovrebbe calare solo di un decimo di punto, al 140,1 per cento del Pil. Troppo poco per evitare che il rischio Italia prenda il volo sui mercati finanziari.
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