«Diffidate delle ricostruzioni di una legge di bilancio che dobbiamo ancora scrivere», ha ammonito due giorni fa una sorridente (ma non troppo) Giorgia Meloni.

Nel video pubblicato su X, il volto della premier quasi deborda dall’inquadratura. Alle spalle di una Meloni sempre più a suo agio in versione influencer, si scorge Giancarlo Giorgetti in maniche di camicia. Sarà per lo sguardo affaticato o per la posa un po’ di traverso sulla poltrona, ma il ministro dell’Economia tradisce tutto il suo imbarazzo. Non parla. Guarda l’obiettivo giusto qualche secondo.

Cala il sipario e pare di sentirlo il sospiro di sollievo del leghista. Perché sì, certo, ci mancherebbe, la manovra è ancora tutta da scrivere. E comunque “sarà seria ed equilibrata, e confermerà alcune priorità, come la riduzione delle tasse, il sostegno a giovani, famiglie e natalità, e interventi per le imprese che assumono”, come si legge nel comunicato consegnato ieri alle agenzie di stampa a conclusione del vertice di maggioranza.

Promesse e realtà

Il fatto è, però, che dietro facciata rassicurante delle note ufficiali si fatica a scorgere un qualunque elemento concreto. Giorno dopo giorno i partiti scaricano promesse, le più varie, nel frullatore delle indiscrezioni. Le stesse indiscrezioni che alimentano gli articoli di giornale che tanto dispiacciono a Meloni.

Giorgetti tutto questo ovviamente lo sa. Peccato che tocchi a lui, alla fine, tirare le somme del lavoro. Una faticaccia per il ministro, vittima pure lui della propaganda degli alleati di governo. E così le metafore diventano una sorta di estrema difesa dal fuoco amico. Tipo quella che evocava gli effetti lisergici sui conti pubblici di certe spese allegre del passato. È finito il modello Lsd”, annunciò Giorgetti a fine giugno alla Camera. Dove la sigla che rimanda alla famosa droga sintetica sta per “lassismo, sussidi, debito”.

Ma non saranno le battute a salvare Giorgetti dal suo destino. Che è quello di chiudere il cerchio dei conti e di metterci la faccia. Un ministro riluttante, si è detto e si è scritto. Un ministro che forse, ancora qualche settimana fa, ha davvero sperato di fare un passo di lato e traslocare a Bruxelles per accomodarsi su una poltrona da commissario europeo. Niente da fare. Quel posto tocca a Raffaele Fitto, come ha deciso ieri il Consiglio dei ministri, mentre a Giorgetti resta da sbrogliare la complicatissima matassa della legge di bilancio.

L’Unione europea chiede un piano a sette anni, il Piano strutturale di bilancio, da presentare entro il 20 settembre, che dovrà indicare gli interventi da realizzare per la riduzione del disavanzo. Gli obiettivi potranno essere rivisti solo in casi eccezionali, come per esempio l’insediamento di un nuovo governo.

Ce lo chiede Bruxelles

Quindi, come minimo, l’orizzonte del piano italiano dovranno arrivare all’ottobre del 2027, quando finirà la legislatura. In base alle regole del nuovo Patto di stabilità, siglato nella primavera scorsa, le misure della manovra non potranno essere finanziate con nuovo deficit, come è successo, per esempio, l’anno scorso.

Dopo mesi di promesse e rassicurazioni, il governo non può certo permettersi di fare marcia indietro sul taglio del cuneo fiscale, che nelle parole di Meloni e dello stesso Giorgetti è una misura chiave per la difesa dei ceti meno abbienti, visto che vale solo per i lavoratori con redditi fino a 35 mila euro l’anno.

Confermare l’intervento sul cuneo anche nel prossimo anno costerà almeno dieci miliardi di euro, una somma che potrebbe assorbire all’incirca la metà del valore dell’intera manovra. Difficile, infatti, che si vada molto oltre i 20 miliardi, visto che nei calcoli dell’Ufficio parlamentare di bilancio serviranno 18 miliardi per rifinanziare gli interventi in scadenza a fine 2024. Oltre al cuneo l’elenco comprende anche, per esempio, la Zes e la riduzione del canone Rai.

Cuneo boomerang

La misura sul cuneo pone tra l’altro un problema di equità dato dal gioco tra le aliquote Irpef e le fasce di reddito in cui lo sgravio si riduce o scompare (25 mila o 35 mila euro). In sostanza, può succedere che un aumento della retribuzione, per effetto di aumenti contrattuali, determini una forte diminuzione dello sconto. Come dire che il taglio del cuneo si trasformerebbe in un boomerang per il lavoratore.

Il governo è quindi chiamato a tappare una falla che potrebbe costare molto in chiave di consenso politico. Missione complicata, come quella di confermare misure come quelle del bonus mamme e il bonus asilo nido, che sono funzionali a salvare l’immagine di un governo che protegge le fasce più deboli. Ecco perché la semplice ipotesi circolata nei giorni scorsi di un intervento sull’assegno unico per i figli è bastata a scatenare la reazione risentita della premier. Eppure, una parziale riscrittura del provvedimento sembra inevitabile, visto che Bruxelles ha aperto una procedura d’infrazione contro l’Italia proprio per le modalità di applicazione dell’assegno unico.

Tra le possibili novità accreditate in ambienti della maggioranza c’è anche quello di un’ulteriore riduzione dell’Irpef, dopo quella in vigore da quest’anno e da confermare per il 2025. Adesso, secondo indiscrezioni, si potrebbe tagliare dal 35 al 33 per cento il prelievo sui redditi tra 28 mila e 50 mila euro. Il problema, come al solito, sono i soldi. La nuova sforbiciata all’Irpef costerebbe almeno 2,5 miliardi di euro l’anno. Fondi che al momento non si capisce dove e come potrebbero essere reperiti.

© Riproduzione riservata