Su pensioni e fisco i partiti della maggioranza sono d’accordo solo nella richiesta di fondi al Mef. Giorgetti frena, ma intanto si lavora per ottenere da Bruxelles maggiore flessibilità sui conti
Tra proposte e sortite che lasciano il tempo che trovano, i partiti della maggioranza si avviano più divisi che mai al vertice di venerdì che segna la ripresa dell’attività di governo.
La scadenza a cui tutti guardano è quella del 20 settembre. Entro questa data, Roma dovrà inviare alla Commissione di Bruxelles il Piano strutturale di bilancio (Psb) previsto dal Patto di stabilità siglato nella primavera scorsa. In sostanza, significa che va trovato l’accordo su un programma di respiro più ampio rispetto alla manovra annuale.
Impegni vincolanti
L’orizzonte, secondo le nuove regole europee, è quello di legislatura, fino a ottobre del 2027, e gli impegni messi nero su bianco sul fronte della spesa pubblica e delle riforme saranno quindi vincolanti almeno fino alle prossime elezioni. È una novità che restringe di molto i margini di manovra del governo, visto che finora sia il Def sia il Documento programmatico di bilancio avevano respiro annuale con ampie possibilità di correzioni in corsa per il successivo biennio.
Ecco perché nelle fila della maggioranza è già cominciato un gioco a smarcarsi che punta a sfruttare l’ambiguità delle norme e anche le presunte debolezze di alcuni grandi partner europei. In altre parole, si conta sul fatto che anche la Francia, in piena impasse politica e dai conti pubblici tutt’altro che brillanti, potrebbe chiedere a Bruxelles di muoversi su un sentiero più ampio. Neppure Berlino, che viaggia verso la recessione, sembra pronta a farsi paladina del rigore. Solo ipotesi, certo, ma tra i partiti della compagine di governo c’è davvero chi spera che alla fine sia possibile spuntare alcune concessioni dai negoziatori europei.
Di sicuro, però, la prossima manovra di bilancio, che arriverà in Parlamento a metà ottobre, non potrà che viaggiare sugli stessi binari del piano inviato alla Commissione, da cui sarà molto difficile ottenere deroghe su alcuni punti considerati vincolanti. Significa, per esempio, che non si potrà fare nuovo deficit per tappare i buchi nei conti, una scorciatoia adottata quasi sempre in passato, compreso l’anno scorso.
Di conseguenza, le risorse necessarie per confermare le due misure bandiera della precedente manovra, cioè il taglio del cuneo fiscale e la riduzione dell’Irpef, dovranno arrivare grazie a tagli di spesa oppure un aumento delle entrate. Il provvedimento sulle aliquote dell’imposta sui redditi, passate da quattro a tre, costa circa 4,5 miliardi e per tre quarti dovrebbe essere coperto con le risorse accantonate al fondo per l’attuazione della delega fiscale. Per replicare anche nel 2025 l’intervento sul cuneo, che vale solo per i redditi fino a 35 mila euro annui, sono invece necessari una decina di miliardi.
Sanità e contratti pubblici
Questo però è solo un conto parziale. Alla voce spese, infatti, il governo sarà chiamato a far fronte anche agli impegni presi sul fronte della sanità. Il ministro Orazio Schillaci ha più volte rassicurato sul fatto che in manovra non mancheranno i fondi per alcuni provvedimenti urgenti, primo tra tutti l’assunzione di medici e infermieri. Poi andranno rinnovati anche i contratti del pubblico impiego, un rinnovo che interessa centinaia di migliaia di lavoratori e prevedibilmente nelle prossime settimane alimenterà forti tensioni con i sindacati.
Se queste sono le premesse è facile da comprendere la prudenza di Giancarlo Giorgetti, da settimane impegnato a richiamare all’ordine una compagine di governo che sembra unita solo su un punto, la richiesta di maggiori risorse per finanziare i più disparati provvedimenti di spesa. Fisco e previdenza sono i due capitoli di gran lunga più importanti, quelli su cui è più facile andare a caccia di facili consensi. E sono in particolare le pensioni, in questi giorni di vigilia del consiglio dei ministri di venerdì, a movimentare un confronto tutto interno alla maggioranza.
L’inverno demografico, con l’aumento costante del numero degli anziani in rapporto alla popolazione attiva, impone interventi urgenti per evitare il crollo del sistema. Dai partiti di governo invece arrivano solo proposte per favorire l’uscita anticipata dal lavoro oppure l’aumento dei vitalizi a chi ha già smesso di lavorare. Un recente rapporto della Ragioneria generale dello Stato ha calcolato che dal 2019 al 2023 il Tesoro ha sborsato circa 40 miliardi per far fronte alle varie deroghe alla legge Fornero, a cominciare da quota 100 varata dal governo gialloverde.
Eppure, la Lega non smette di chiedere quota 41, ovvero il numero di anni di contributi che darebbero accesso alla pensione, senza limiti di età. Una richiesta che già nel 2023 è caduta nel vuoto e che adesso, in una situazione di finanza pubblica ancora più complicata, appare a maggior ragione irricevibile. Forza Italia invece punta sull’aumento delle pensioni minime, vecchio cavallo di battaglia di Silvio Berlusconi.
Il ministero dell’Economia marcia in direzione contraria. I tecnici lavorano di forbici, o almeno ci provano, con l’obiettivo di ridurre la spesa. Vanno in questa direzione le ipotesi circolate di recente come il taglio della percentuale di adeguamento all’inflazione per le pensioni più alte, come già fatto l’anno scorso. Oppure l’allungamento delle finestre d’uscita per accedere al trattamento d’anzianità.
Due provvedimenti certo non risolutivi, visto che frutterebbero risparmi nell’ordine delle centinaia di milioni, contro cui si è già schierata gran parte della maggioranza. In attesa che qualcuno, al Tesoro o a Bruxelles, fischi la fine della ricreazione.
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