Il governo non vuole prendere atto degli effetti devastanti del Superbonus. I possibili interventi per trovare nuove risorse rinviati a dopo le elezioni
E adesso? Che fare ora che le spese del Superbonus (siamo a 122 miliardi) stanno ingolfando di nuovo debito il bilancio dello Stato, mentre le previsioni di un Pil in affanno incombono sulla crescita economica e il calo dei tassi procede più lento rispetto alle attese? Mentre il governo si prepara a varare il Documento di economia e finanza (Def), le incognite sul futuro prossimo minacciano di mandare all’aria i fragili equilibri messi nero su bianco con l’ultima legge di Bilancio, quando Giorgia Meloni, annunciando nuovi sgravi fiscali e aiuti ai più bisognosi, vantava i successi di un paese che viaggia più veloce rispetto alla media dell’Unione europea.
Mancano le risposte, mancano i numeri per disegnare una traiettoria dei conti pubblici che giustifichi quell’iniezione di ottimismo che sarebbe quanto mai necessaria in vista dell’appuntamento elettorale di giugno. E allora, a quanto pare, il governo sembra intenzionato a risolvere il problema aggirando l’ostacolo. Se non si trovano le risposte, basta eliminare le domande, e il gioco è fatto.
Bruxelles contro Roma
In concreto, e salvo novità dell’ultim’ora, il prossimo Def sarà inviato al parlamento senza il consueto quadro programmatico. Cioè non verranno illustrate le misure che nei programmi dell’esecutivo dovrebbero correggere la traiettoria tendenziale dei conti pubblici. «Sarà un Def più leggero», ha anticipato Giancarlo Giorgetti nei giorni scorsi.
La novità, del tutto inedita per un governo non dimissionario, viene giustificata col fatto che le regole del nuovo Patto di stabilità europeo approvato a fine 2023 entreranno in vigore solo a maggio e quindi non sarebbe possibile definire fin d’ora uno scenario per i prossimi anni. Va detto, tra l’altro, che entro la prossima estate Bruxelles aprirà una procedura d’infrazione per deficit eccessivo nei confronti dell’Italia e di numerosi altri paesi, almeno una decina. Roma parte dal disavanzo monstre del 2023, il 7,2 per cento del Pil rispetto al 5,3 per cento che era stato previsto solo pochi mesi prima, nella Nota di aggiornamento (Nadef) di fine settembre. Un’impennata che si spiega, come noto, con i costi del Superbonus.
Debito fuori giri
Per il 2024, le stime governative avevano da principio fissato un deficit tendenziale a quota 3,6 per cento, ma al momento pare difficile da raggiungere anche il ben più modesto 4,3 per cento che è stato inserito nel quadro programmatico della manovra per quest’anno. Gli oneri fuori controllo dei bonus edilizi, siamo a oltre 200 miliardi secondo i calcoli più aggiornati, manderanno fuori giri anche il debito e quindi, partendo dal 137,3 del 2023, sarà davvero complicato restare sotto l’asticella del 140,1 per cento del Pil, che sarebbe l’obiettivo di partenza fissato dal governo anche per il 2025.
In un bilancio schiacciato dal peso del Superbonus vanno trovati almeno 15 miliardi per confermare le misure bandiera dell’ultima manovra, cioè il taglio del cuneo fiscale e il taglio delle imposte, piuttosto esiguo in verità, realizzato con l’accorpamento di due aliquote Irpef. Questi provvedimenti, impropriamente definiti “riforme”, valgono solo per quest’anno e dovranno essere rifinanziati per il prossimo.
Considerate le condizioni dei conti pubblici, sembrano scritte sull’acqua anche le promesse del viceministro dell’Economia Maurizio Leo, che giusto tre settimane fa si è spinto ad annunciare nuovi interventi per ridurre il prelievo fiscale per i ceti medi, chi dichiara tra 55mila e 100mila euro l’anno.
Questione di salute
Poi c’è il capitolo previdenza. Nell’ultima manovra è arrivata una prima stretta su Quota 103, e con l’aria che tira pare sempre più probabile che questa scappatoia verso una pensione anticipata venga eliminata. Per non parlare di Quota 41, un classico della propaganda soprattutto di marca leghista.
Il governo rischia grosso anche sulla sanità. Meloni continua a ripetere che il bilancio pubblico ha aumentato le risorse disponibili anche su questo capitolo. Un’affermazione smentita dai numeri se si considera che l’incremento nominale è stato del tutto assorbito dall’inflazione.
E così, in termini reali, la spesa sanitaria quest’anno non supererà il 6,26 per cento per scendere ancora al 6,2 per cento entro il 2026, la cifra più bassa dal 2007. Numeri che come ha rilevato di recente un’analisi della Corte dei conti sono molti distanti da quelli della Germania, 10,9 per cento del Pil, e della Francia, 10,3 per cento, giusto per fare l’esempio di due grandi paesi europei. Tutto questo mentre si allungano sempre di più i tempi di attesa per visite ed esami nelle strutture pubbliche con conseguenze pesanti sulla salute pubblica.
Servirebbe una svolta decisa, come chiesto di recente dall’appello di 14 scienziati di fama. Al momento, però, non si capisce dove il governo potrebbe trovare le risorse necessarie a finanziare interventi e riforme che incidano sul sistema sanitario, in grave difficoltà anche per mancanza di medici e infermieri. Imporre nuove tasse sarebbe un suicidio politico e sembrano difficili da immaginare anche i tagli consistenti su altre voci della spesa. Il calo dei tassi previsto per i prossimi mesi avrà effetti concreti sulla spesa per interessi non prima della fine del 2025.
I nodi dei conti pubblici però verranno al pettine ben prima di quella data. «Non ci sarà bisogno di una manovra correttiva», è tornato a ripetere ieri Giorgetti. Intanto, meglio azzerare dubbi e domande, almeno fino alle elezioni di giugno. E presentare un Def a metà.
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