Anche quest’anno l’esecutivo annuncia un intervento sulla giungla delle tax expenditures. Ma in vista della manovra non può deludere le molte categorie favorite da queste misure
Puntuale come la canicola d’agosto in città, anche quest’anno nelle stanze (vuote) della politica è tornato il dibattito sulla revisione delle spese fiscali. «Bisogna riformarle, ripensarle, possibilmente tagliarle», ripetono da un decennio almeno i governi di ogni colore e tendenza. E lo fanno di preferenza nei giorni della pausa estiva che precede la manovra prossima ventura. In mancanza d’altro, e di idee, la politica si aggrappa a un argomento che produce titoli di giornale, perché riguarda la quasi totalità dei cittadini (quelli che pagano le tasse) e delle aziende.
Niente di male, ci mancherebbe, il vuoto pneumatico di Ferragosto va in qualche modo riempito, se non fosse che a proposito di spese fiscali, altrimenti dette tax expenditures, le parole cadono spesso nel vuoto dell’irrilevanza e dopo quasi un decennio di chiacchiere e buoni propositi i fatti stanno ancora tristemente a zero.
Insomma, il dibattito gira su sé stesso e a innescare l’ennesimo giro di giostra sono arrivate nei giorni scorsi le dichiarazioni del sottosegretario all’Economia, il leghista Federico Freni. «Una revisione delle tax expenditures è doverosa – ha detto Freni a La Repubblica – perché ci sono decine di micro agevolazioni che hanno scarso impatto».
Buoni propositi
Per capire il senso di queste parole va detto che le spese fiscali sono oltre 600 e, tra l’altro, riguardano anche casa, salute, istruzione e previdenza. Nessun politico si azzarda a proporre tagli su queste specifiche misure perché favoriscono milioni di italiani che grazie a queste detrazioni e deduzioni riescono a tagliare il conto da pagare al fisco, quello segnato nell’ultima riga del 730.
Basti pensare, giusto per fare un paio di esempi, alle detrazioni delle spese mediche o degli interessi passivi pagati sui mutui per la prima casa. Il costo per lo Stato di questi sconti è molto elevato. Per le due misure citate ammonta, in totale, a circa 5 miliardi l’anno.
La torta, però, è molto, molto più grande. Secondo l’ultima relazione curata da un’apposita commissione del ministero dell’Economia l’elenco completo comprende 625 voci e il minor gettito per l’Erario nel 2023 ha toccato in totale gli 82 miliardi. Anno dopo anno l’elenco di favori ed esenzioni si è esteso a dismisura, con decine di provvedimenti molto spesso tagliati su misura per singole categorie, tanto che in molti casi i beneficiari dei sussidi fiscali sono solo poche decine.
Sconti e nebbia
Non per niente, la stessa commissione ministeriale sottolinea nella sua relazione che questi provvedimenti hanno «prevalente finalità di scambio con i vari gruppi di interesse». Dalle bande musicali agli apicoltori, dai coltivatori di tartufi ai dipendenti del Vaticano, sono decine le micro lobby a cui lo Stato garantisce uno sconto sulle tasse. Sono così numerose che su questo tema nei giorni scorsi i deputati Pd Maria Cecilia Guerra, Virgilio Merola e Ubaldo Pagano hanno formulato un’interrogazione al governo. I parlamentari Dem avevano chiesto al Mef quale fosse la «quota strutturale e quella non strutturale delle agevolazioni». Il quesito aveva lo scopo di individuare i margini di manovra di eventuali interventi, salvaguardando gli sconti per casa, salute e istruzione. Dal governo però non è arrivata nessuna riposta nel merito, argomentando che non è chiaro che cosa «debba intendersi per componente strutturale delle misure agevolative».
In precedenza Freni aveva confermato quanto per altro già risulta dalla relazione ministeriale. E cioè che per almeno un quinto delle tax expenditures non è possibile calcolare a quanto ammonti esattamente l’onere per lo Stato. Insomma, si naviga a vista.
Il problema principale, però, non è questo, quanto piuttosto il rischio politico a cui finirebbe per esporsi un governo che davvero puntasse a mettere ordine nel ginepraio delle spese fiscali. Ecco un esempio concreto.
Lobby in azione
Nei mesi scorsi la riduzione degli sconti sull’Irpef per i terreni agricoli ha scatenato la protesta dei trattori, costringendo l’esecutivo a tornare sui suoi passi. La retromarcia costerà alle casse pubbliche circa 300 milioni in due anni, una somma relativamente modesta, ma la vicenda aiuta a comprendere quanto sia complicato toccare gli interessi di una lobby particolarmente agguerrita. Lo stesso discorso vale per la riduzione delle accise sui carburanti garantita, tra gli altri agli autotrasportatori. Quest’ultima voce vale, da sola, circa 1,6 miliardi e si può facilmente immaginare quali proteste scatenerebbe un eventuale intervento deciso dal governo.
Del resto fin dai tempi di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, la politica si esercita, a parole, sull’argomento tax expenditures, con risultati nulli. Anzi, le spese fiscali, che erano 444 nel 2016, sono progressivamente aumentate fino a toccare quota 625 nel 2023.
Nel frattempo, sono rimaste tali le buone intenzioni, per esempio, del secondo governo di Giuseppe Conte che si era ripromesso di riformare il sistema di questi particolari sussidi.
La destra di governo ha imboccato la stessa strada, con risultati identici a chi l’ha preceduta, almeno finora. «Occorre un’opera di ripulitura», spiegava il vice ministro dell’Economia Maurizio Leo in un’intervista del marzo del 2023. A quasi un anno e mezzo di distanza, il cantiere non è ancora stato aperto e il sottosegretario Freni in questi giorni è tornato, quasi con le stesse parole di Leo, ad annunciare un intervento mirato sulle spese fiscali.
«Non toccheremo certamente le detrazioni per spese mediche, casa e lavoro», ha prudentemente messo le mani avanti il sottosegretario, evitando accuratamente di inoltrarsi sul terreno minato degli ipotetici tagli. Troppo alto il rischio politico. Far la guerra alle lobby costa tempo e fatica, a maggior ragione in vista di una manovra d’autunno che già si annuncia ad alto grado di difficoltà.
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