La sicurezza sui luoghi di lavoro passa anche per l’integrazione. Non è un vezzo da cultura woke, ma una necessità acclarata dagli esperti per ridurre il rischio di incidenti mortali. A cominciare dalla comprensione della lingua.

«La conoscenza della lingua italiana da parte dei lavoratori stranieri è un elemento fondamentale per la comprensione delle regole in ambito lavorativo e conseguentemente dei comportamenti sicuri e corretti da parte dei lavoratori», ha scritto in un paper sulla materia la Confindustria di Bergamo.Un problema che non nasce oggi, dunque, ed è condiviso.

Su questo punto c’è infatti una piena convergenza con i sindacati. Basti pensare ai corsi promossi sui territori dalle sigle. Mentre a livello nazionale un documento congiunto firmato da Cgil e Uil ha rilanciato un patto per garantire l’attenzione all’integrazione.

«Mai al lavoro senza una formazione e un addestramento adeguati, che devono essere destinati a ogni lavoratore e ogni lavoratrice – anche tenendo conto della capacità di comprensione linguistica – prima di essere adibiti a ogni specifica mansione e devono essere erogati da enti di formazione accreditati e certificati», si legge nel testo.

Non c’è un dato preciso sull’impatto che ha lo sviluppo dell’integrazione rispetto alla sicurezza.

La stima, formulata dagli esperti, racconta di almeno un 25 per cento di incidenti legati alla scarsa comprensione della lingua. Insomma, ci sono le norme da far rispettare, le ispezioni da rendere sempre più stringenti, perché l’attività di controllo deve essere di standard elevati sui luoghi di lavoro.

Di pari passo c’è appunto la capacità di inclusione del personale straniero. Il primo veicolo, più diretto, è la lingua. Un cartello interpretato in maniera inesatta, o addirittura totalmente non compreso, rappresenta un problema su un cantiere. Al contrario la capacità di lettura diventa un salvavita. Soprattutto in ambienti a elevata presenza di lavoratori di diversa provenienza.

E qui serve l’intervento della formazione con la spinta del pubblico, del governo e degli enti locali chiamati a implementare la sicurezza sui luoghi di lavoro.

C’è poi l’iniziativa dei privati per provare a individuare delle soluzioni fatte in casa. Da questa constatazione è partita la campagna formativa del modello everyDEI (Diversity, Equity e Inclusion) di uno dei progetti di Fincantieri.

La campagna di Fincantieri

La società guidata dall’amministratore delegato, Pierroberto Folgiero, ha sviluppato una strategia sul tema. È stata pianificata in questa direzione l’erogazione dei corsi di formazione telematica in varie lingue, dall’inglese al francese, passando per lo spagnolo per parlare di quelle più “semplici”.

Ma ci sono corsi di altre lingue, in base alla provenienza del personale: bengalese, croato, rumeno, albanese, polacco, cinese. Alla fine del corso c’è lo svolgimento di un test di apprendimento. La pratica punta al risultato di approdare a una cultura aziendale più orizzontale e inclusiva.

C’è quindi un altro livello di formazione, che non attiene solo agli operati abbracciando gli altri dipendenti. Su tutti ci sono i corsi dedicati – non solo ai dirigenti apicali – alle altre figure interne a Fincantieri, che trascorrono il loro tempo sui cantieri per migliorare la partecipazione alla vita aziendale.

La declinazione effettiva di questo principio è tra, le varie cose, un uso diverso lessico, più inclusivo. Un esempio? La messa al bando della definizione delle persone su base etnica o nazionale. Non si viene definito come “italiani”, “egiziani” o “indiani”, o come “musulmani” “indù” e così via. Ci si rivolge alle persone per scongiurare l’effetto ghettizzazione, che non attiene alla sicurezza sul lavoro ma all’inclusione.

Dall’altro lato c’è un elemento di inclusione a tavola. “Siamo quello che mangiamo”, è una frase molto ricorrente per evidenziare il legame tra cultura e alimentazione. Vale dappertutto.

A mensa si decide un pezzo fondamentale della strategia di integrazione. Diverse culture hanno abitudini alimentari differenti. Quindi le mense aziendali si adeguano, mettendo a disposizione scelte alternative a chi, per esempio, non consuma carni o predilige determinati alimenti.

Sportello digitale

La contaminazione culturale che amplia il ventaglio di scelte, dando opzioni diverse a chiunque. La questione non si riscontra solo nelle mense. In questo ambito si innesta l’app Step2Connect, che è uno strumento extralavorativo che guarda con interesse all’integrazione.

La fase di sperimentazione è stata avviata tra i dipendenti delle ditte dell’indotto dei cantieri di Monfalcone e Marghera. In quel caso ci sono stati degli incontri fisici. I punti di riferimento erano stati tradizionali sportelli a cui rivolgersi. Solo che la soluzione ha un limite fisico: bisogna seguire degli orari di apertura e chiusura.

Il lavoratore avrebbe dovuto prendere appuntamento, incastrare gli impegni nella giornata e andare dagli esperti per chiedere informazioni di qualsiasi tipo, comprese quelle per i diritti sociali. La tecnologia ha superato la barriera fisica.

L’app Step2Connect è una sorta di guida di mediazione interculturale e interattiva disponibile per per tutto il giorno grazie alla sua natura digitale. Di cosa si tratta nello specifico? Nei fatti fornisce contenuti pratici per guidare i lavoratori stranieri nel sistema italiano, inclusa la burocrazia e il rapporto con il sistema sanitario.

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