- L’Anfia stima la perdita di quasi 65mila posti di lavoro con il passaggio all’auto elettrica, nel 2018 le stime erano pari a circa la metà.
- La produzione a batterie necessita meno lavoro: circa il 40 per cento di tempo in meno. Secondo il Global report 2022 della AlixPartners, i costruttori tenderanno a svolgere in proprio oltre il 70 per cento delle lavorazioni, lasciando solo il 28 per cento ai componentisti.
- Ministero e filiera continuano a battersi per frenare la transizione, i rischio è di ostinarsi a difendere filiere in via di estinzione: i grandi produttori investiranno sull’elettrificazione oltre 500 miliardi di euro nei 5 anni di qui al 2026.
Se il bando europeo alla vendita delle automobili con motore a scoppio entro il 2035 verrà approvato in via definitiva, la filiera italiana dei componenti auto rischia di perdere decine di migliaia di posti di lavoro. Una parte potrà essere compensata dalle nuove attività legate all’elettrico, ma se i perdenti sono noti – i produttori di motori e cambi – non è ancora chiaro chi uscirà vincitore dalla transizione.
La cifra che le organizzazioni di categoria e i sindacati fanno circolare da un po’ di tempo per l’Italia è quella di 70mila posti di lavoro; in realtà l’associazione di categoria Anfia parla di «40 per cento dei 161mila posti diretti della filiera», il che farebbe 64.400 addetti. Non è chiaro se si tratti di posti di lavoro che sarebbero persi o posti di lavoro a rischio, ma recuperabili con opportune riconversioni.
Negli scorsi anni, quando il tema dell’elettrificazione delle auto era caldo ma non ancora decisivo, dalla filiera erano arrivate stime molto più contenute. Nell’annuale Osservatorio sulla componentistica auto del 2018, firmato anche Anfia, Andrea Stocchetti dell’università di Ca’ Foscari scriveva che «nel 2017 circa il 7 per cento delle aziende di componenti e oltre 17 mila addetti della filiera sono impegnati in produzioni esclusivamente legate ai motori a combustione interna, in larga parte a motori diesel»; secondo un articolo del Sole 24 Ore, sempre del 2018, contando anche le aziende che non lavorano solo sui motori si arriva a 32mila addetti in Italia, circa metà delle cifre attualmente fornite dalla filiera.
L’associazione italiana non è l’unica a mostrarsi, in tempi recenti, estremamente pessimista. L’omologa francese Pfa ha commissionato l’anno scorso uno studio alla società di consulenza Alix Partners sull’impatto del processo di elettrificazione dei veicoli. Secondo lo studio, il processo di transizione farebbe perdere alla filiera dei componenti dal 15 al 30 per cento dei suoi posti di lavoro su una base di poco più di 300mila (compresi quelli occupati da Peugeot e Renault), ovvero dai 45 ai 90mila posti.
La Ford europea ha annunciato nei giorni scorsi la cessazione della produzione di auto a Saarbrucken, in Germania, dal 2025, poiché la produzione di un futuro modello elettrico è stata assegnata alla sua fabbrica di Valencia, in Spagna. «La realtà del settore è che la produzione di veicoli elettrici richiederà meno persone», ha affermato il presidente di Ford in Europa, Stuart Rowley.
In realtà i tagli nelle fabbriche di auto, tra costruttori e fornitori, sono in atto da anni in tutta Europa. Stellantis, per fare solo un esempio, ha ridotto l’organico di circa 10 mila unità in Europa nel solo primo anno di esistenza, il 2021; di questi, quasi 5mila sono stati eliminati in Italia, con prepensionamenti e incentivi alle dimissioni; altri ne verranno eliminati quest’anno. Lo stesso Carlos Tavares, numero uno di Stellantis, ha ridotto gli organici di Peugeot, Citroen e Opel di circa 40mila posti, da quando ne ha preso le redini nel 2013 al 2019. Persino Elon Musk di Tesla, un’azienda che non ha bisogno di riconvertirsi ed è in teoria in forte espansione, ha avvertito che taglierà il 10 per cento dei colletti bianchi, pari a poco più del 3 per cento della forza lavoro.
I casi Bosch e Marelli
I produttori di motori e componenti per motori diesel sono già stati messi in crisi dal crollo delle vendite di auto a gasolio seguito allo scandalo “dieselgate” del 2015. Un paio di esempi: lo stabilimento Bosch di Modugno, in provincia di Bari, che produce pompe e iniettori per motori diesel ha oltre 1.700 dipendenti e nei mesi scorsi aveva annunciato 700 esuberi; ha già avviato una diversificazione, con 350 persone che non lavorano sui diesel – una parte impegnata nell’assemblaggio di motori elettrici per biciclette. Un problema simile c’è alla Marelli, sempre a Modugno, dove circa metà degli occupati lavora già su motori elettrici.
È chiaro che la filiera dei motori a scoppio è destinata progressivamente a sparire. Progressivamente, perché il blocco delle vendite dovrebbe in un primo tempo riguardare le auto vendute in Europa, e non quelle vendute in altre zone né i veicoli commerciali e industriali.
Il 40 per cento in meno di lavoro
La sostituzione del complesso motore termico – cambio con quello motore elettrico – batteria comporta, come affermato da Rowley, una significativa riduzione della complessità e quindi una riduzione della manodopera necessaria. Secondo uno studio AlixPartners del 2017, il propulsore elettrico, batteria compresa, richiede il 40 per cento in meno di ore di lavoro rispetto a un motore tradizionale: 3,7 ore contro 6,2.
Per quanto riguarda i componenti di base dei motori, una delle possibili riconversioni è la produzione di rotori e statori per motori elettrici; ma anche per questo tipo di riconversioni servono fondi, per cui è probabile che la transizione riesca solo ai fornitori più grandi e solidi, quelli di primo e secondo livello; più in difficoltà saranno invece le aziende impegnate in singoli processi di lavorazione, che secondo l’indagine Anfia sono in prevalenza a proprietà e gestione familiare.
A compensare la perdita di posti nelle lavorazioni motoristiche tradizionali ci potrebbero essere quelle aggiuntive, a partire dalle batterie, che sono però di tipo completamente diverso – chimica al posto di meccanica, e quindi aprono spazi ad aziende finora esterne alla filiera.
La fine dei componentisti?
Un problema rilevante per i fornitori è la volontà dei grandi gruppi automobilistici di “svolgere in casa” il maggior volume possibile di lavorazioni, a partire da quelle legate a motore elettrico e batterie. Secondo il Global report 2022 della AlixPartners, i costruttori tenderanno a svolgere in proprio oltre il 70 per cento delle lavorazioni, lasciando solo il 28 per cento ai componentisti. In particolare, spiega il managing partner di AlixPartners, Dario Duse, i le case automobilistiche intendono effettuare (direttamente o tramite joint venture) il 100 per cento del lavoro sulle celle di batterie e la quasi totalità di quelli su motori elettrici e trasmissioni. Maggiori possibilità ci sarebbero nei settori degli inverter e degli on-board charger, i caricatori di bordo che dialogano con le colonnine di ricarica di terra.
Proprio in quest’ultimo settore, per esempio, ha avviato di recente un’espansione la Mta di Codogno; la Mta è un’azienda medio-grande (circa 200 milioni di fatturato) che fabbrica componenti elettrici ed elettronici, balzata agli onori delle cronache due anni fa quando la prima “zona rossa” anti Covid le impedì per una settimana di consegnare i prodotti, mettendo a rischio la produzione di varie case automobilistiche. Mta si è ripresa rapidamente dall’effetto Covid ed è riuscita a riportare il fatturato a livelli pre-pandemia. A fine 2021 ha messo a segno un’acquisizione piccola ma significativa, con la Edn specializzata in caricabatterie di bordo; secondo l’amministratore delegato Antonio Falchetti «l’operazione è un altro passo per trasformare Mta in un attore rilevante del processo di elettrificazione dell’auto».
Un caso significativo in cui la transizione elettrica ha offerto un’occasione importante a un’azienda della “vecchia” economia è quello della Idra Presse. Dopo una storia pluridecennale e un rischio di fallimento una quindicina di anni fa, la Idra è stata salvata dalle banche e ceduta a un gruppo cinese; la sua giga-pressa, un insieme di macchine per pressofusione di alluminio ad alta temperatura, è stata adottata da Tesla che la usa per stampare in un unico pezzo i sotto-scocca anteriore e posteriore delle sue vetture, sostituendo in ciascun caso decine di pezzi singoli.
Pionieri, pronti, inseguitori
Tutti i fornitori, insomma, cercano di uscire dalle produzioni “condannate” e di riposizionarsi su quelle del futuro. Secondo AlixPartners, gli atteggiamenti dei fornitori rispetto all’elettrificazione si possono dividere in tre gruppi: pionieri, pronti a partire e inseguitori. Fra i pionieri (37 per cento del totale), quasi metà hanno già avviato la chiusura o la cessione delle attività legate ai motori a scoppio; il sondaggio è globale, quindi la stessa percentuale in Italia risulterebbe probabilmente più bassa.
Serviranno sicuramente aiuti alla riconversione, a partire dall’utilizzo del fondo da 8,7 miliardi di euro istituito al Mise. Per ora ministero e filiera continuano a battersi per frenare la transizione, e al prossimo vertice europeo cercheranno di bloccare la proposta UE di bando delle auto con motore a scoppio dal 2035.
Il rischio è di ostinarsi a difendere filiere in via di estinzione, mentre i costruttori sembrano aver imboccato con decisione la strada elettrica. Secondo AlixPartners le case automobilistiche e i loro fornitori investiranno complessivamente sull’elettrificazione oltre 500 miliardi di euro nei 5 anni di qui al 2026, mentre i programmi di investimento sui motori a scoppio e ibridi scenderanno dagli attuali 500 ai 300 del 2028.
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