Per l’economista Giovanni Dosi, professore ordinario della Scuola Sant’Anna di Pisa, serve un intervento più incisivo dello Stato per difendere interessi strategici. In questi anni i governi hanno garantito aiuti enormi agli Elkann senza ottenere nulla in cambio
«Ripresa? Quale ripresa? Propaganda a parte, che è sempre legittima, per carità, davvero non capisco su che cosa si fondi l’ottimismo del governo sull’andamento della nostra economia. Io vedo, piuttosto, un rimbalzo dei redditi italiani, dovuto, che piaccia o no, agli effetti ritardati del 110 per cento. Effetti che, peraltro, sono destinati a esaurirsi presto. La ripresa strutturale proprio non c’è stata, per il momento».
Giovanni Dosi, professore ordinario alla Scuola sant’Anna di Pisa, è uno degli studiosi italiani più accreditati a livello internazionale nel campo dell’economia industriale e dell’innovazione tecnologica. Il suo ultimo saggio accademico “The foundations of complex evolving economies” analizza tra l’altro il ruolo dell’innovazione nello sviluppo del capitalismo.
Dal suo punto di osservazione, come spiega in questa intervista, Dosi vede un governo (“ma non solo quest’ultimo”) privo di una rotta precisa per favorire la crescita.
«La politica industriale semplicemente non c’è. I ministri che dovrebbero occuparsene prendono decisioni che nascono da una totale e imbarazzante mancanza di visione».
Un giudizio netto. Vogliamo entrare nel merito di queste sue valutazioni?
«Partiamo dall’Ilva, che è un disastro, certo non prodotto dal solo governo Meloni. È un mostro figlio della privatizzazione».
Non è che Finsider, l’azienda pubblica dell’acciaio, andasse alla grande.
«Penso che se l’azionista pubblico avesse tenuto il controllo si sarebbe potuto intervenire in modo più efficace nel rinnovamento degli impianti anche dal punto di vista ambientale».
E invece?
«E invece, per stare solo agli sviluppi più recenti, lo Stato ha fato ponti d’oro a una multinazionale. L’ha addirittura finanziata, agevolandola per centrare il suo obiettivo, che era chiaramente quello di mettere fuori causa un concorrente pericoloso come l’Ilva. Quei soldi potevano essere spesi per avviare un risanamento in senso green di un’industria che resta comunque strategica per paese».
A proposito di multinazionali, in questi mesi il governo sta trattando, tra alti e bassi, con Stellantis sul tema del futuro degli stabilimenti italiani, da Mirafiori fino a Pomigliano. Pronostici su come potrebbe andare a finire?
«Ho l’impressione che sia stata persa l’occasione di far valere il peso dello Stato per influenzare le scelte di Stellantis».
E quando sarebbe successo?
«Nel 2020 quando Stellantis ha ottenuto un finanziamento di 6 miliardi di euro con la garanzia pubblica di Sace, il governo di allora (era il Conte 2, ndr) avrebbe dovuto imporre garanzie più stringenti per quanto riguarda, per esempio, gli investimenti da realizzare in Italia. Invece, Stellantis ha incassato, ringraziato e dopo due anni ha restituito quei soldi, per altro dopo aver distribuito quasi 4 miliardi di euro di dividendi ai suoi azionisti. Con il risultato che adesso il gruppo chiede ancora soldi allo Stato sotto forma di incentivi per l’acquisto di auto e arriva a condizionare il mantenimento dell’occupazione in Italia alla concessione di questi aiuti».
Quindi ora che cosa dovrebbe fare il governo?
«Temo che ci sia poco da fare, ormai. È stato fatto un favore ai privati senza ottenere nulla in cambio. Per ottenere qualcosa dalla controparte, i governi, non solo quello in carica, si sono sempre affidati al buon cuore di Fiat prima, di Fca poi e infine di Stellantis».
In queste settimane si decide anche il destino di Tim, in cui lo Stato ha giocato un ruolo attivo. Quale sarebbe a suo parere la soluzione ideale?
«Il governo ha agevolato la vendita della rete, un asset strategico che a mio parere dovrebbe restare interamente italiano e pubblico. Un grave errore, a mio parere. E adesso il futuro dipende dalle scelte di un fondo, che non sempre, per usare un eufemismo, corrispondono all’interesse generale. Senza contare la speculazione di Borsa che in questi giorni si sta accanendo sul titolo Tim».
Dunque lei invoca l’intervento pubblico nei settori strategici. Tra il dire e il fare c’è però di mezzo Bruxelles e le norme sugli aiuti di Stato. Come si supera questo ostacolo?
«Quello che succede è che i provvedimenti del governo italiano, presi per difendere gli interessi industriali del Paese, vengono spesso ostacolati dall’antitrust europeo. Con altri paesi invece, e mi riferisco a Francia o Germania, le eccezioni abbondano da parte dei custodi della concorrenza. A Bruxelles, l’Italia è debole. Abbiamo un governo che dice di essere sovranista, ma nei fatti è uno di quelli che meno ha tutelato gli interessi del nostro paese in Europa».
Adesso però c’è la grande occasione del Pnrr. L’Italia la sta sfruttando al meglio, secondo lei?
«Il Pnrr potrebbe essere di grandissimo aiuto. Il problema è che in parte non riusciamo a spendere i soldi e in parte ci concentriamo sulle cose più facili, all’insegna del business as usual. Pensiamo per esempio agli investimenti per l’economia green. Qui il governo difende gli interessi dell’Eni e della parte più retriva della Confindustria. Spiace dirlo, ma così non si costruisce un futuro sostenibile».
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