La fusione tra Fiat e Peugeot, che ha dietro il governo francese, porta incertezza a tutto il comparto. Il governo Conte non si è mosso e il futuro di operai e aziende è appeso a una transizione all’elettrico mancata.
- Il settore dell’automotive italiano vive una crisi «severa e diffusa». Tra gli elementi di incertezza oltre alla crisi pandemica c’è la transizione al paradigma tecnologico dell’elettrico e la fusione tra Fca e Peugeot, di cui è socio il governo di Parigi.
- L’approvazione dell’operazione è prevista per il 4 gennaio e mentre la Francia annunciava a maggio un piano industriale a sostegno del settore, il ministro dello sviluppo economico Patuanelli non ha mai incontrato i sindacati.
- Secondo l’osservatorio per la componentistica le aziende della filiera chiedono soprattutto incentivi alla domanda, pensano alla sopravvivenza. Non c’è una regia centrale che le spinga all’innovazione.
Dopo dodici anni di vita in cassa integrazione, una pandemia globale può fare meno paura di una fusione industriale. Allo stabilimento Fca di Pratola Serra, provincia di Avellino dove si producono propulsori per quel diesel che oggi rischia di essere spazzato via dalla transizione elettrica, le crisi sono diventate una costante: «Siamo in cassa integrazione dal 2008 circa, prima una crisi di settore ora una di prodotto. Paradossalmente grazie al Covid tra virgolette abbiamo riconvertito parte dello stabilimento per la produzione di mascherine coinvolgendo 450 lavoratori», dice Italia d’Acierno, operaia e sindacalista. «Per ora sappiamo solo che fino a settembre 2021 la situazione sarà questa. Ma la vera paura, vista anche la fusione tra Fca e Peugeot, è per il futuro dello stabilimento una volta che la produzione di mascherine cesserà». Anche l’ultimo rapporto dell’associazione della filiera dell’industria automobilistica (Anfia) inserisce l’operazione che darà vita alla nuova società Stellantis tra le incertezze di un settore che vive una crisi «severa e diffusa».
Nei primi sei mesi dell’anno dagli stabilimenti italiani sono usciti meno di 300mila autoveicoli, la metà rispetto al 2019. Il Covid ha fatto il vuoto, ma fa paura anche quello che verrà dopo in un mercato europeo in cui i marchi francesi controllano il 57 per cento del mercato francese, i tedeschi il 70,3 per cento di quello tedesco e insieme hanno più del 51 per cento di quello italiano. E soprattutto in cui gli altri governi hanno accompagnato più del nostro la grande transizione tecnologica verso l’elettrico.
Nei documenti depositati in vista della fusione tra la società partecipata dallo stato francese e quella italiana è spiegato che «Fca e la direzione di Psa hanno stabilito che Peugeot è l’acquirente a fini contabili». Da Fiat ridimensionano la notizia riportata da Automotive news spiegando che si tratta solo di una questione formale. Mentre le indiscrezioni che arrivano da Torino sembrano confermare che i progetti del futuro gruppo per il segmento B, col tempo diventato più marginale in Fca, sono basati sulla tecnologia di Peugeot. E l’azienda si limita a dire che dopo la presentazione della 500 elettrica ci saranno altri modelli che useranno la stessa architettura, ma non indica quali.
Mai visto Patuanelli
I sindacati avevano chiesto di conoscere almeno le condizioni della garanzia pubblica al prestito bancario da 6,3 miliardi di euro a Fca, decisivo per la fusione. «In tutto l’anno non abbiamo nemmeno incontrato il ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli», spiega Michele De Palma, sindacalista responsabile del settore auto per la Fiom Cgil. Il governo di Parigi invece ha presentato la sua strategia a maggio spiegando che «il sostegno al settore deve essere massicciamente amplificato» per arrivare «a produrre in Francia i veicoli puliti di domani e restare una grande azienda dell’automobile». Parigi ha messo in campo incentivi alla domanda e fondi per quasi un miliardo per la conversione e l’innovazione della filiera e infine sostegno alle aziende in difficoltà, tutto sotto lo stesso cappello di politica industriale. Lo Stato imprenditore è solo quello degli altri.
In Italia non ci sono state né proposte, né riposte. La Fiom aveva denunciato che in tutti i suoi piani formalmente Fca «prevedeva la “piena occupazione” in Italia, ma al contempo utilizza da anni ammortizzatori sociali in quasi tutti gli stabilimenti» e aveva presentato le sue ricette per il settore, cercando di parlare con tutti i partiti, anche per ridiscutere gli incentivi. L’esecutivo sembra aver accolto l’idea della sostituzione delle flotte pubbliche inserita nella bozza del Recovery plan. Ma i sindacati non ne sono stati informati. Senza un tavolo col governo, ora i tavoli li stanno aprendo all’interno delle fabbriche, per tutto il mese di dicembre saranno i lavoratori a discutere. De Palma snocciola i temi che sarebbero da affrontare, prima di tutto i sistemi di propulsione con il passaggio all’ibrido elettrico per il presente e l’idrogeno come potenziale tecnologia per il futuro e poi guida autonoma, interconnessione, micromobilità. Il solo altro tavolo è il comitato aziendale europeo di Fca. O incontri organizzati con aziende come Bosch, cioè la multinazionale tedesca che in Germania ha a che fare con un altro piano di riconversione spinto dal governo dopo lo scandalo Volkswagen.
Obiettivo sopravvivenza
Se le aziende del gruppo – trentuno stabilimenti e sedici siti produttivi solo quelli di Fiat Chrysler – sono quelle che vorrebbero più certezze, il problema tecnologico è di tutto il comparto e le imprese che vivono alla periferia dei giganti comprendono meno il rischio che comporta la mancata innovazione. Anna Moretti, direttrice dell’Osservatorio sulla componentistica del settore automobilistico spiega di aver registrato una «scarsa propensione alla strategia». Le imprese che esportano sono meno ottimiste che in passato, perché si devono confrontare con mercati in cui la regia pubblica ha accompagnato la crisi della pandemia e il passaggio tecnologico. Mentre quelle che hanno investito all’interno della cornice di Industria 4.0, il programma di incentivi alle imprese che innovano, dicono di farlo per rimanere competitive, per difendere la loro posizione, non per «innovare la loro offerta e quindi rispondere in modo diverso o nuovo ai bisogni di clienti e fornitori». «Sempre più imprese ci dicono che partecipano a power train elettrici, ma non abbiamo registrato un vero cambio di passo sugli investimenti in ricerca e sviluppo», dice Moretti. «Le richieste che avanzano sono interventi di sostegno alla domanda, con un orizzonte di breve periodo, volto alla sopravvivenza». I dati raccolti dall’osservatorio fanno arrivare alla stessa conclusione del sindacato: manca una regia centrale per rispondere ai cambiamenti in arrivo. «Stiamo parlando di una filiera lontana dal centro. Se la risposta centrale è la cassa integrazione e sostegno alla domanda, allora manca un messaggio chiaro, una collaborazione tra investimenti pubblici e privati, alla frontiera della tecnologia», dice Moretti. In alternativa persino gli effetti della pandemia possono sembrare meglio dell’incertezza del futuro.
Ha collaborato Giunio Panarelli
© Riproduzione riservata
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