Il Tesoro è pronto a vendere un’altra quota di Banca Mps. Poi tocca alle Poste. Ma i proventi sono di molto inferiori agli obiettivi annunciati dal Tesoro
Circa il 15 per cento in un mese. Il 70 per cento da inizio anno. E addirittura il 136 per cento nell’arco di 12 mesi. Anche se con qualche pausa nell’ultima settimana, il Monte dei Paschi continua a macinare rialzi in Borsa e il ministero dell’Economia, che dal primo luglio potrà mettere sul mercato un’altra fetta della quota pubblica nella banca senese, vuole accorciare i tempi della nuova vendita di Stato.
Le banche d’affari si preparano a un collocamento del 15 per cento circa del capitale. Se l’operazione andasse davvero in porto tra un paio di mesi, l’incasso per il Mef potrebbe quindi aggirarsi intorno al miliardo di euro, prendendo come riferimento le quotazioni di questi giorni. E visto che le due precedenti analoghe operazioni su titoli Mps (a novembre 2023 e poi ancora nell’aprile scorso) hanno fruttato un altro miliardo e mezzo, il saldo finale per lo Stato supererebbe i 2,5 miliardi. Un risultato su cui all’inizio dell’anno nelle stanze del Tesoro pochi avrebbero scommesso. Il merito va al boom di Borsa che ha premiato soprattutto i titoli bancari e agli ottimi risultati della ristrutturazione interna di Mps.
Annunci e realtà
Per il ministro Giancarlo Giorgetti, però, le buone notizie finiscono qui, perché, come del resto era ampiamente prevedibile, i risultati del programma di cessione di attività pubbliche restano comunque di molto inferiori rispetto agli obiettivi annunciati dal governo. Al conto finale vanno sommati anche i proventi della vendita, pari a 1,4 miliardi, di un pacchetto di titoli Eni (2,8 per cento del capitale) collocato un paio di settimane fa. Nei piani dell’esecutivo è poi destinato al mercato anche un 30 per cento del capitale di Poste italiane, che ai prezzi di questi giorni vale poco più di 5 miliardi. Un’operazione, quest’ultima, che affrettando al massimo i tempi, difficilmente potrà essere completata entro il prossimo autunno.
A conti fatti, quindi, questo round di parziali privatizzazioni dovrebbe fruttare in totale circa 9 miliardi. Un numero ancora distante dal traguardo fissato dal governo, che secondo quanto si legge nel Documento di economia e finanza (Def) pubblicato in aprile punta a incassare circa 20 miliardi entro la fine del 2027.
Siamo a meno di metà strada, quindi, ma il problema, adesso, è che non resta granché da mettere in vendita, visto che nessuno a Palazzo Chigi immagina di perdere il controllo su gruppi considerati strategici, dall’Eni all’Enel, fino a Terna a Leonardo.
I rilievi della Corte dei Conti
Sul tema era intervenuta anche la Corte dei Conti, nell’audizione parlamentare sul Def in aprile. «Sarebbe importante», osservavano i magistrati contabili, «che nel piano strutturale di bilancio si desse dettagliato e circostanziato conto del ruolo che potrebbero e dovrebbero avere le politiche di gestione attiva degli asset pubblici nel prossimo futuro (...) anche per evitare gli scostamenti che si sono non di rado registrati nei lustri scorsi tra risultati e previsioni iniziali». Insomma, oggi come in passato, il governo continua a dare numeri che alla prova dei fatti si rivelano poco credibili.
Del resto, solo qualche anno fa, Giorgia Meloni era fieramente schierata contro ogni ipotesi di privatizzazione e sulla vendita di quote delle Poste nel 2018 tagliò corto dicendo: «Sarebbe una follia!». Anche su questo argomento, come su molti altri, la Meloni di governo ha posizioni molto diverse dalla Meloni d’opposizione. L’inversione di rotta si spiega con i numeri della finanza pubblica, che certo non sfuggono alla leader di Fratelli d’Italia, ora che siede sulla poltrona di presidente del Consiglio.
La vendita dell’argenteria, sotto forma di partecipazioni di Stato, è una scorciatoia per dare un taglio al debito pubblico, che continua a crescere. Le previsioni della Commissione Ue pubblicate qualche giorno fa fissano il rapporto tra debito e Pil del nostro paese al 138,6 per cento alla fine di quest’anno, contro il 137,8 per cento delle stime del governo. Mentre nel 2025 si arriverebbe al 141,7 per cento, il 2,8 in più rispetto a quanto prevede Roma. In termini assoluti, è ormai certo che entro qualche mese verrà superata la soglia psicologica dei 3 mila miliardi di debito (ora siamo a circa 2.900 miliardi).
Terapia d’urto
In queste settimane di campagna elettorale il governo comprensibilmente preferisce parlar d’altro, ma la resa dei conti arriverà comunque in autunno quando andrà presentato a Bruxelles il piano fiscale strutturale in vista della manovra per il 2025. Lo stop annunciato al Superbonus, uno stop di cui peraltro restano da verificare gli effetti concreti, ha messo un freno a una situazione che rischiava seriamente di sfuggire di mano. Questo però non basta per risalire davvero la china.
Non è una sorpresa, quindi, che qualche analista prescriva terapie d’urto con l’obiettivo di rimettere in carreggiata i conti. Tre giorni fa, al termine della sua annuale missione in Italia, il Fondo monetario internazionale ha stilato un rapporto in cui si elencano le malattie croniche dell’economia italiana, a cominciare dalla scarsa produttività.
Le soluzioni proposte vanno tutte in direzioni contraria a quella indicata dal governo che si concentrano su interventi di corto respiro, come i bonus per le assunzioni o i tagli al cuneo fiscali. «Vanno introdotte riforme che inneschino la crescita a medio lungo termine», questa l’indicazione degli economisti Fmi che per rimettere in sicurezza i conti propongono di varare una manovra che produca un avanzo primario pari al 3 per cento del Pil.
Significa 60 miliardi di risparmi nell’arco di un paio d’anni. Il triplo di quanto previsto dal governo per il 2026.
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