Gli incassi per lo Stato sono cresciuti del 7 per cento nei primi cinque mesi dell’anno. Gli effetti sul deficit saranno però limitati. E in vista della manovra d’autunno restano i dubbi sui proventi della riforma fiscale
Il dato era atteso. Già una decina di giorni fa, la Banca d’Italia nel suo Bollettino economico ha segnalato che il fiume di tasse e imposte che si riversa nei conti pubblici si è ingrossato nei mesi scorsi oltre ogni aspettativa. La voce entrate tributarie, grazie soprattutto ai maggiori incassi dell’Irpef, è aumentata di 13,7 miliardi nei primi cinque mesi dell’anno, il 7,1 per cento in più rispetto allo stesso periodo del 2023.
Una crescita confermata anche dai numeri dell’assestamento di bilancio, il documento ora all’esame della Camera che aggiorna le stime sull’andamento dei conti pubblici per il 2024. Ebbene, il governo prevede una crescita di oltre 24 miliardi per le entrate e oltre i due terzi dell’incremento si spiegano con l’exploit dei tributi.
L’onda lunga della spesa
Tutto bene, quindi? E come si giustifica, alla luce di questi dati, la preoccupazione espressa più volte dal ministro Giancarlo Giorgetti per la prossima manovra d’autunno? In realtà, come sottolineano i tecnici della materia, l’ottimismo per il boom delle entrate lascia il tempo che trova. E per spegnere i facili entusiasmi basta ricordare che buona parte degli incassi extra sono destinati a coprire l’incremento di alcune voci di spesa, a cominciare dagli oneri del Superbonus edilizio che costeranno almeno 13 miliardi.
D’altra parte, se quest’anno i conti dovessero davvero andare meglio di quanto previsto a primavera nel Documento di economia e finanza (Def), il risultato del 2024 darà una spinta solo parziale in vista di una scalata ben più complicata: quella che attende il governo Meloni chiamato in autunno a trovare le risorse per rispettare gli obblighi imposti da Bruxelles e mantenere gli impegni sul taglio del cuneo fiscale e gli sgravi Irpef.
Come noto, la Commissione europea chiede a Roma un aggiustamento che costerà almeno una dozzina di miliardi l’anno, mentre la conferma dell’intervento sul cuneo , una promessa solennemente rinnovata solo pochi giorni fa da Giorgetti, potrebbe pesare per circa 11 miliardi sul bilancio pubblico.
Ecco perché con l’avvicinarsi di settembre, quando l’esecutivo dovrà cominciare a mettere le carte in tavola, in primo luogo con l’Europa, i tecnici del ministero dell’Economia sono alla frenetica ricerca di risorse supplementari per puntellare i conti. E come in un cubo di Rubik di cui sfugge di continuo la soluzione, anche l’allineamento dei numeri della prossima manovra sembra ancora tutt’altro che a portata di mano.
Fisco amaro
Sul fronte delle entrate, che pure in questi mesi sta dando qualche consolazione al Mef, le preoccupazioni maggiori riguardano il concordato preventivo biennale, la misura lanciata dal viceministro Maurizio Leo come primo passo verso il fisco cosiddetto “collaborativo” nei cittadini. Il provvedimento è in realtà rivolto ai soli lavoratori autonomi a cui viene proposto un accordo sulle tasse da pagare per i due anni successivi evitando nel frattempo accertamenti e controlli sui redditi dichiarati.
Nella visione di Leo il provvedimento avrebbe favorito l’emersione di una parte del sommerso garantendo entrate supplementari allo Stato. Le attese del governo sembrano però destinate a essere molto ridimensionate, per usare un eufemismo, perché gran parte dei destinatari della mano tesa del fisco, sembrano in realtà ben poco propensi a collaborare.
Chi finora ha evaso molto si vedrà infatti proporre una somma più elevata di quanto ha pagato negli anni scorsi e quindi preferisce continuare a nascondersi contando sul fatto che le probabilità di incappare in un controllo restano molto basse. Gli evasori in “modica quantità”, invece, sceglieranno in buona parte di rinunciare al concordato perché li impegna a versare un’imposta fissa per due anni, anche se il loro reddito, soggetto agli alti e bassi del mercato, dovesse nel frattempo diminuire.
Incognita crescita
Di fronte a tutte queste incognite per il governo diventa difficile azzardare previsioni sul gettito di un provvedimento che da principio potesse fruttare fino a un paio di miliardi nel primo biennio. Per dare un taglio al deficit e al debito, la strada maestra sarebbe quella di spingere sulla crescita, ma anche qui l’incertezza regna sovrana.
Il governo stima una crescita del Pil all’1 per cento quest’anno e al l’1,2 per cento l’anno prossimo.
Previsioni che però vengono ridimensionate da altri autorevoli osservatori.
Secondo la Banca d’Italia l’incremento non dovrebbe andare oltre lo 0,6 per cento nel 2024 e lo 0,9 per cento nei successivi 12 mesi.
Anche il Fondo monetario internazionale (Fmi), che martedì ha pubblicato la relazione finale della sua periodica missione in Italia, non va oltre un più 0,7 per cento per quest’anno che diventa più 0,9 per cento nel 2025. Numeri inferiori a quelli di fonte governativa e comunque insufficienti a trainare il risanamento dei conti. Per questo motivo, il Fmi torna a prescrivere un aggiustamento fiscale che porti l’avanzo di bilancio primario, cioè al netto degli interessi sul debito, addirittura a quota 3 per cento.
Una cura da cavallo, quella che arriva da Washington, a suon di tagli e stop a molti sussidi e crediti d’imposta. Il rischio concreto, però, è che questi interventi finiscano per stroncare le residue possibilità di crescita, come del resto viene segnalato nel report, attribuendo il giudizio ad alcuni directors del Fondo. E con la crescita in frenata anche debito e deficit riprenderebbero a correre.
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