- Dal tempo della privatizzazione, 25 anni fa, le vicende di Tim (prima Telecom Italia) sono seguite come quelle della nazionale di calcio: siamo un popolo di allenatori e ognuno vuol dire la sua.
- Ma Tim non è un bene pubblico, è una società privata, quotata in Borsa. Meglio quindi assumere un approccio da investitore e cercare di capire quale sarà lo scenario più probabile, che lo si condivida o meno.
- Molti dei problemi di Tim non sono attribuibili alla sua gestione ma sono comuni al settore. In più Tim è aggravata dall’operare in un paese a bassa crescita come l’Italia
Dal tempo della privatizzazione, 25 anni fa, le vicende di Tim (prima Telecom Italia) sono seguite come quelle della nazionale di calcio: siamo un popolo di allenatori e ognuno vuol dire la sua. Ma Tim non è un bene pubblico, è una società privata, quotata in Borsa.
Meglio quindi assumere un approccio da investitore e cercare di capire quale sarà lo scenario più probabile, che lo si condivida o meno. E per farlo è indispensabile fare una premessa sulle tendenze in atto nel settore in cui Tim opera.
Il declino
Quello delle comunicazioni è un settore in declino in tutta Europa per una combinazione di fattori. Primo, nella catena del valore delle comunicazioni le aziende come Tim hanno la parte a minor valore aggiunto e crescita, schiacciate tra chi produce la tecnologia (dagli smartphone ai microprocessori che controllano le loro reti, fisso e mobile) e chi produce i contenuti (streaming, giochi, social) che transitano sulle reti.
Le società di comunicazione sono quindi dei distributori di connessioni in un mercato ormai saturo: la domanda di smartphone è ormai solo di sostituzione, e le connessioni internet hanno già raggiunto una elevata capillarità e, soprattutto, tutti i clienti a maggior valore.
Inoltre, operano in un mercato altamente concorrenziale ed eccessivamente frammentato: in tutti gli Stati Uniti ce ne sono solo tre, mentre in Europa almeno tre per nazione, in tutto un centinaio di società, con in media 4,5 milioni di utenti, contro i 95 milioni di quelle americane e i 400 delle cinesi.
La minor crescita dei consumi delle famiglie in Europa unitamente a un mercato saturo, all’elevata concorrenza e al basso potere negoziale nei confronti di chi produce contenuti e tecnologie, fanno si che il settore delle comunicazioni abbia poche prospettive di crescita.
Tutti i tentativi delle compagnie telefoniche di integrarsi a monte, entrando nella produzione e offerta di contenuti, come ha fatto anche Tim con Dazn, sono stati un insuccesso proprio per la disparità di potere negoziale e risorse. Altrettanto quelli di entrare nel mercato della tecnologia (come i servizi e la gestione dei Cloud), dove si scontrano con la potenza dei leader Amazon, Microsoft e Google.
Nazionalismo e 5G
Le società di comunicazione europee, operando in un contesto di stagnazione del fatturato, frammentazione, forte concorrenza e compressione dei margini, non riescono a generare internamente i flussi di cassa necessari al vasto programma di investimenti nelle reti per migliorare i servizi e offrirne di nuovi, come col 5G, che pure è l’unico modo per incrementare ricavi e margini.
Questo è il risultato del nazionalismo dei governi che di fatto impediscono le fusioni transfrontaliere, e di una politica antitrust che privilegia il consumatore di oggi a spese del consumatore di domani (nel senso che la scarsità di risorse per migliorare l’offerta nel lungo termine danneggia il consumatore futuro).
Secondo il Financial Times, in Europa solo il 2,4 per cento delle comunicazioni usano il 5G, contro il 15 negli Usa e il 30 in Cina; una “politica industriale” che ha portato in 10 anni a una riduzione dei ricavi del settore del 13 per cento, contro aumenti del 30 negli Usa e del 59 in Cina.
Il 5G è una tecnologia tra le più promettenti in termini di effetti sulla produttività in molti campi e rischia di diventare l’ennesimo ritardo tecnologico europeo in un settore, le comunicazioni mobili, dove una volta eravamo leader nel mondo, con società come Nokia ed Ericsson che in Borsa furono l’equivalente di Apple e Google oggi.
E in mancanza di risorse interne e di chiare prospettive di crescita, le società telefoniche hanno fatto un eccessivo ricorso al debito.
Questione di settore
La premessa serve a capire che molti dei problemi di Tim non sono attribuibili alla sua gestione ma sono comuni al settore. In più Tim è aggravata dall’operare in un paese a bassa crescita come l’Italia; dall’eredità dell’eccessivo indebitamento passato; e da costi di struttura elevati.
Lo si vede chiaramente dalla tabella: sulla base delle stime per il 2022 (fonte Factset) le dieci maggiore società europee hanno avuta una contrazione media dei ricavi del 2 per cento negli ultimi cinque anni, con Tim tra le peggiori (fa eccezione Deutsche Telekom che però origina il 60 per cento di ricavi negli Stati Uniti); hanno un rapporto medio prezzo/utili, che è strettamente correlato alle aspettative di crescita, a sconto del 20 per cento rispetto all’indice del mercato (Tim è in linea con la media); e un indebitamento di 2,4 volte il margine operativo, rispetto all’1,8 del mercato (con Tim che ha l’indebitamento più elevato).
La recente performance di Tim in Italia è stata anche migliore della concorrente Vodafone: nei sei mesi a settembre 2021, la contrazione di ricavi è stata inferiore a quella di Vodafone nel nostro paese (-2,1 rispetto a -2,5), con un margine operativo superiore.
Che fare della rete
In questa situazione, lo scorporo di tutta la rete in una società separata da fondere con OpenFiber appare come una strada obbligata: la rete unica riduce la concorrenza e assicura margini più elevati e stabili; permette a Tim di deconsolidare molto debito nella nuova realtà, oltre a trasferirle l’eccesso di personale senza dover fare ristrutturazioni; e assicura un futuro redditizio a OpenFiber, altrimenti incerto.
Il problema è a chi andranno i flussi di cassa generati dalla nuova società della rete e, in prospettiva, i finanziamenti e aiuti dal Pnrr. I francesi di Vivendi, avendo investito e perduto parecchio in Tim, puntavano ad averne il controllo o la maggiore fetta, ma questo si scontra con la volontà della politica di riportare la rete nell’area pubblica, e con lo scarso gradimento di Bolloré, si dice anche per le sue posizioni politiche nelle prossime presidenziali francesi.
Le ragioni di Antitrust addotte appaiono pretestuose perché una posizione dominante pubblica o privata rimane dominante; anzi, lo stato azionista è un’ottima assicurazione contro lo stato regolatore, come è nel caso di tutte le altre società delle reti.
Percependo che l’operazione di scorporo della rete era diventata ineludibile e che avrebbe liberato valore in Tim, il fondo Kkr si è fatto avanti presentando la propria offerta per avvantaggiarsi della situazione. Poiché in Kkr sono tutto tranne che sprovveduti, credo che l’offerta debba aver avuto la preventiva benedizione dal governo, e in questo senso appare come un chiaro invito al socio Vivendi a trattare l’uscita. Non hanno lanciato l’Opa perché non sarebbe servita allo scopo, portando solo a rilanci e a un maggiore esborso.
E il piano di valorizzazione di Tim che Vivendi ha chiesto al nuovo amministratore delegato in pectore, che si dice comporti l’inevitabile scorporo della rete, appare come un modo per negoziare un maggior prezzo con Kkr. Che dopo aver incassato dalla cessione della rete, potrebbero passare alla vendita del Brasile, per poi uscire in utile da Tim, diventata una mera società di distribuzione, redditizia, e alleggerita di debiti e costi di struttura.
Inutile recriminare sul passato o auspicare improbabili alternative a quello che appare come il destino di Tim, e che un’eventuale crisi politica potrebbe solo rinviare.
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