Molti sottolineano che l’inflazione è una tassa sui poveri. Meno studiato è l’effetto distributivo della restrizione monetaria. Due ricercatori della Banca d’Italia riaprono il dibattito e invocano politiche di bilancio che compensino i perdenti della restrizione monetaria
Con l’inflazione che torna rapidamente verso l’obiettivo della Bce, possiamo considerare archiviata la fase di rialzo dei tassi. Ma se la fase inflattiva e il conseguente ciclo restrittivo sono probabilmente dietro di noi, gli effetti sull’economia si faranno sentire ancora a lungo. E a pagare il conto saranno i soliti noti.
L’inflazione non è uguale per tutti
Il Diario Europeo ha più volte sottolineato che l’inflazione è “una tassa sui poveri” per molte ragioni. In primo luogo, perché questi hanno spesso redditi fissi, che vengono erosi dalla crescita dei prezzi. Inoltre, chi ha redditi più modesti ha anche meno risparmi cui poter ricorrere per mantenere stabili i consumi, e spesso ha meno accesso ai mercati finanziari e al credito: è più probabile che i risparmi siano detenuti in forma liquida (e quindi intaccati dall’inflazione) da chi guadagna di meno che da chi guadagna di più. Infine, le prestazioni sociali e le pensioni sono spesso male indicizzate e vengono erose dall’inflazione più di altri tipi di reddito.
In generale, per definizione, i salari e gli altri redditi fissi si aggiustano all’inflazione più lentamente dei redditi da capitale o delle prestazioni dei liberi professionisti. La capacità delle imprese di proteggere i propri margini nel 2022-2023 è ormai certificata dalla ricerca di istituzioni come il Fondo monetario e la stessa Bce.
Con il progressivo ridursi della forza dei sindacati e della copertura dei contratti collettivi, la capacità dei lavoratori di negoziare aumenti salariali per assorbire almeno in parte l’inflazione si è di molto ridotta (una delle ragioni per cui la spirale prezzi-salari recentemente non si è vista).
Ma anche i lavoratori non sono tutti uguali: i più qualificati possono negoziare individualmente e adeguare la propria remunerazione all’inflazione.
Questo contribuisce ad aumentare le disuguaglianze anche tra i redditi da lavoro dipendente.
Durante l’episodio recente, di inflazione legata alla crisi energetica e alla guerra, un altro canale ha giocato un ruolo fondamentale: i prodotti energetici e alimentari rappresentano una porzione più importante dei panieri di consumo delle famiglie meno agiate, il cui potere d’acquisto è quindi ridotto in proporzione maggiore se questi aumentano.
L’Istat è uno dei pochi uffici statistici europei che tengono conto dell’inflazione per classi di reddito: al picco, nell’autunno 2022, il tasso di inflazione calcolato sul paniere di consumo del 20 per cento più povero della popolazione era al 18,6 per cento, quasi 9 punti più alto di quello del 20 per cento più ricco (9,9 per cento).
Due ricercatori della Banca d’Italia, Francesco Corsello e Marianna Riggi, hanno recentemente approfondito la questione mostrando come i prezzi dell’energia siano direttamente legati al differenziale di inflazione tra famiglie più ricche e meno ricche, proprio a causa della diversa composizione dei panieri di consumo.
Nemmeno la disinflazione
Ma il lavoro di Corsello e Riggi è interessante soprattutto per la loro analisi dell’impatto delle politiche monetarie sul differenziale di inflazione. Infatti, se i beni diversi dall’energia pesano di più nei panieri dei più ricchi, saranno questi a beneficiare di più, in termini di minore inflazione, quando la politica monetaria frena e riduce la domanda aggregata. È lecito quindi aspettarsi, quando nei prossimi mesi l’aumento dei tassi avrà dispiegato tutto il suo effetto, un effetto distributivo importante.
Questo canale si aggiunge a quelli ben noti. Innanzitutto, gli economisti concordano sul fatto che la stagnazione dell’attività economica porta con sé un aumento delle disuguaglianze, colpendo maggiormente i lavoratori meno qualificati. Comprimendo la crescita, dunque, la politica restrittiva monetaria avrà probabilmente un effetto negativo sulla distribuzione del reddito.
La disuguaglianza potrebbe aumentare anche perché l’aumento dei tassi porta a un aumento dell’onere del debito e quindi a una perdita di reddito per le famiglie più indebitate, generalmente quelle più modeste. Specularmente, l’aumento dei tassi di interesse andrà ad aumentare i rendimenti delle obbligazioni, detenute dai più benestanti in proporzione ben maggiore.
L’aumento dei tassi di interesse porterà insomma a una redistribuzione dai debitori, principalmente le famiglie più modeste, a creditori in genere più benestanti. Le classi medie spesso hanno sia risparmio investito in obbligazioni che debito (per i mutui) da pagare, per cui l’effetto dell’aumento dei tassi di interesse dipende dal peso relativo dei due.
I ricercatori della Bce hanno recentemente stimato che per le classi medie dell’Eurozona l’esborso per i mutui pesa di più, per cui una restrizione monetaria ha un effetto complessivamente negativo sul loro reddito. A complicare le cose, i ricercatori del Fondo monetario internazionale documentano un effetto asimmetrico: le restrizioni monetarie aumentano significativamente la disuguaglianza, ma le politiche espansive hanno un effetto più modesto nell’altra direzione.
Infine, ma certamente non da ultimo, l’aumento dei tassi di interesse avrà un impatto significativo sui margini di manovra dei governi. Le grandi crisi degli ultimi anni ci hanno lasciato in eredità uno stock di debito pubblico che oggi pesa sulle spalle di quasi tutti i paesi.
Per far quadrare i bilanci, i governi dovranno necessariamente ridurre altre spese per compensare l’aumento della spesa per interessi. Questo significherà meno investimento pubblico e meno spesa per lo stato sociale; a sua volta questo implicherà minore correzione delle disuguaglianze proprio mentre la restrizione monetaria le esacerba e richiede, come sottolineato tanto da Corsello e Riggi quanto dai ricercatori del Fondo monetario, misure correttive.
Il contratto sociale
Già nei suoi Essays in Persuasion, nel 1931, John Maynard Keynes aveva con estrema lucidità individuato il potenziale effetto dirompente sul contratto sociale degli effetti distributivi dell’inflazione. Ma il passato recente ci fornisce insegnamenti che vanno al di là dell’inflazione e degli effetti della politica monetaria.
Salvo per brevi periodi, la disuguaglianza negli scorsi decenni è aumentata quando i prezzi erano stagnanti e quando crescevano, quando le banche centrali lasciavano correre l’inflazione e quando l’aggredivano con politiche restrittive.
L’organizzazione delle nostre società è oggi tale che ad appropriarsi dei frutti della crescita sono le classi più agiate e a pagare i costi delle crisi sono quelle più modeste. Testa vinco io e croce perdi tu, insomma. Per riformulare il famoso proverbio inglese ripreso da Ken Loach, «quando piove e quando splende il sole sui poveri piovono pietre».
Il solo modo per uscire da questa situazione, che sta progressivamente minando il contratto sociale nato dal secondo Dopoguerra, è che le politiche pubbliche riprendano la mano e che il tema della distribuzione del reddito ritorni al centro dell’agenda politica, non solo della sinistra.
© Riproduzione riservata