Negli stessi giorni in cui Salvini attacca Unicredit per la scalata a BancoBpm, i francesi di Natixis trattano con Generali per un’alleanza nell’asset management. Un affare multimiliardario che potrebbe concludersi con la parziale ritirata di un grande gruppo italiano. Eppure in questo caso i leghisti tacciono. È la dimostrazione che la difesa dell’italianità viene tirata in ballo per coprire interessi di partito
La notizia, pubblicata dal Financial Times, risale a lunedì scorso. Quel giorno, lo stesso in cui Unicredit ha messo a rumore il mondo della finanza e della politica con la sua offerta per BancoBpm, il giornale britannico ha rivelato che Generali è in trattativa con il gruppo francese Natixis per un’alleanza nel settore dell’asset management.
L’operazione, che non è stata smentita dalle parti in causa, riguarda milioni di clienti e una colossale quantità di denaro, visto che la compagnia triestina gestisce capitali per un valore di oltre 800 miliardi, mentre il suo promesso sposo transalpino vanta un portafoglio che supera addirittura i 1.300 miliardi.
Generali e i francesi
Nulla è trapelato a proposito delle condizioni di un’alleanza che non è affatto detto vada in porto. Sin d’ora però possiamo dire che l’accordo avrebbe almeno una conseguenza certa: una fetta importante delle attività di Generali potrebbe infine essere condivisa con un importante investitore straniero.
Natixis, infatti, fa capo al gruppo Bpce (Banque Populaires et des Casse d’Epargne), che è il secondo gruppo bancario francese. In altre parole, uno dei marchi più celebri della finanza made in Italy non avrebbe più il controllo totale sui capitali in gestione per conto dei clienti. Finora però non pare che i sovranisti di casa nostra si siano interessati al caso. Niente, non pervenuti. Forse Matteo Salvini e gli altri vocalist della Lega sono troppo impegnati a difendere l’indipendenza di una banca italiana come il BancoBpm minacciata da Unicredit, a tal punto da evocare l’intervento diretto del governo con l’arma del golden power.
Eppure, nella logica leghista, i motivi di preoccupazione non mancherebbero neppure nel caso dell’alleanza tra Generali e Natixis. Basti pensare che le gestioni patrimoniali della compagnia di Trieste danno un contributo rilevante alla finanza pubblica, sottoscrivendo ogni anno miliardi di euro di Btp. Si rafforza quindi il sospetto che la difesa dell’italianità del BancoBpm sia il paravento di interessi diversi, per quanto legittimi. In primo luogo, la tutela di un futuribile terzo polo bancario nazionale che dovrebbe nascere dall’unione di BancoBpm con il Monte dei Paschi di Siena, di cui l’istituto milanese già controlla il 5 per cento, una quota che potrebbe presto aumentare.
Ne uscirebbe un gruppo bancario nato per iniziativa del governo, che ha scelto gli investitori, compresi i gruppi Caltagirone e Del Vecchio, a cui girare parte delle sue azioni. Anche per questo motivo la nuova entità sarebbe più esposta ai condizionamenti della politica, se non altro perché il Tesoro, con una quota dell’11 per cento è ancora il principale investitore nel capitale di Mps.
Attacco a Bankitalia
Per l’occasione la Lega ha anche riesumato una proposta di legge per adeguare la governance di Banca d’Italia ai “migliori standard europei”. L’obiettivo finale, ovviamente non dichiarato, è quello di mettere il governatore al guinzaglio della politica. Non casualmente, l’iniziativa leghista arriva poche dopo l’attacco di Salvini che ha accusato Bankitalia di non fare abbastanza per difendere il BancoBpm.
A mali estremi, estremi rimedi, compreso il ricorso al golden power. La legge in materia, riformata per l’ultima volta nel 2023, consente l’uso di questi poteri speciali del governo anche per un’operazione che coinvolge due società italiane. Il dibattito tra gli esperti, semmai, riguarda altro. Ci si chiede, in sintesi, se la fusione tra Unicredit e BancoBpm minacci in qualche modo un interesse strategico nazionale. Il rischio, paventato da molti commentatori, è che il governo cerchi di difendere se stesso più che il paese.
Nei piani di Andrea Orcel, l’amministratore delegato di Unicredit, non mancano certo le incognite per il futuro della banca preda. Una delle principali, come ha messo in rilievo proprio ieri il ceo di BancoBpm, Giuseppe Castagna, riguarda le ricadute sull’occupazione di un’eventuale fusione tra i due istituti una volta completata la scalata. Secondo Castagna, che ieri ha diffuso una lettera aperta ai dipendenti, sarebbero a rischio almeno 6 mila posti di lavoro, per effetto degli inevitabili doppioni nelle varie aree di attività. La cifra corrisponde a circa un terzo degli attuali 18.700 dipendenti dell’istituto milanese. Va ricordato che il Banco è reduce da una lunga stagione di tagli. A fine 2020 a libro paga c’erano 20.700 persone e da mesi sono incorso negoziati con i sindacati per la gestione di circa 1.600 nuovi esuberi.
Castagna paventa anche la perdita delle caratteristiche di banca del territorio, vicina alle famiglie e alle piccole imprese, che sarebbe causata dall’integrazione con un colosso internazionale come Unicredit. E poi c’è la questione del prezzo d’offerta, troppo basso secondo i vertici dell’istituto sotto attacco. Tutte questioni che saranno al centro di un duello destinato a durare ancora a lungo. Quanto all’italianità minacciata, più di un commentatore ha fatto notare che nel gruppo che nascerebbe da un’eventuale fusione il peso dei soci italiani sarebbe maggiore rispetto a quello che hanno attualmente nel capitale di Unicredit. Insomma, gli stranieri perderebbero posizioni. Adesso qualcuno lo spieghi a Salvini.
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