«Sono arrivato alla Wärtsilä 20 anni fa, venivo dalla Ferriera di Servola, cercavano un gruista e io ero già esperto anche se giovane. Ero felice, pensavo che avrei fatto lì la pensione». Christian Rella, iscritto Fiom, è uno dei 450 operai della Wärtsilä, ex Grandi Motori, che da luglio rischia il licenziamento perché la multinazionale finlandese ha deciso di chiudere lo stabilimento italiano e riportare tutta la produzione in Finlandia dove ha ricevuto ingenti fondi governativi per ampliare l’impianto a Vaasa.

Da un mese gli operai stanno presidiando i cancelli, senza bloccare la produzione, per impedire l’uscita di pezzi finiti da recapitare ai clienti e soprattutto un eventuale smantellamento dell’impianto, visto che la multinazionale vorrebbe riportare in patria anche i macchinari. «Il presidio è importante, ci confrontiamo e li riceviamo solidarietà dalla gente – dice – ma siamo tutti preoccupati perché la situazione del lavoro a Trieste è già tragica».

Sta arrivando l’autunno caldo

Lavoratori tra i 30 e i 50 anni

Il 14 luglio scorso la storica fabbrica che produce grandi motori marini e per le centrali elettriche, l’unica di questo tipo esistente in Italia, ha annunciato la chiusura: in Italia dovrebbe restare solo la rete commerciale e di servizi, circa 550 dipendenti. «Negli anni scorsi sono già state concordate molte fuoriuscite volontarie dall’azienda con operai vicini alla pensione, ora siamo rimasti tutti giovani tra i 30 e i 50 anni con figli da mantenere e case da pagare», continua Rella, un figlio alle superiori, un mutuo ancora lontano dall’estinzione.

I finlandesi di Wärtsilä sono proprietari al 100 per cento dell’azienda dal 2001, dopo aver iniziato dal 1997 l’acquisizione di Grandi Motori Trieste, nata a sua volta da una joint venture di Iri e Fiat e rilevata da Fincantieri. «A Trieste la Wärtsilä è erede di una lunga tradizione che parte da metà Ottocento con i Cantieri Riuniti dell’Adriatico, la fabbrica Sant’Andrea era la più grossa carpenteria in Europa, facevano dalla vite al montaggio di motori grandissimi per le navi e per le centrali elettriche. È l’ultima fabbrica che fa grandi motori in Italia», racconta a Domani Fabio Kanidisek delegato Fim-Cisl, con un passato in fabbrica di decenni.

Licenziare con garbo non basta per difendere il lavoro

I portuali pronti allo sciopero

L’annunciata chiusura sta però avendo risvolti non solo sociali, ma anche politici e diplomatici e ha compattato tutto il territorio triestino contro questa decisione. Gli operai hanno immediatamente attivato un presidio di fronte alla fabbrica per scongiurare qualsiasi tentativo dell’azienda di portare via i macchinari, i portuali di Trieste hanno annunciato che in caso di operazioni di carico e scarico che riguarderanno Wärtsilä proclameranno lo sciopero e il presidente della Regione Massimiliano Fedriga aveva persino chiesto al governo di bloccare il percorso dell’ingresso della Finlandia nella Nato. Confidustria Alto Adriatico si è schierata con i lavoratori, mentre Fincantieri ha minacciato il taglio degli ordini e azioni legali.

Parla l’ex presidente

«A mio modesto parere il ritiro dei finlandesi non ha ragioni industriali, l’azienda è efficiente e dava ottimi risultati. Certo ci sono venti di crisi per la congiuntura economica e geopolitica, ma niente di preoccupante». Il ‘modesto parere’ è di Sergio Razeto, presidente di Wärtsilä Italia fino al 2016 ed ex prendente di Confindustria Venezia Giulia. «Wärtsilä è una mia creatura – ricorda parlando con Domani – ma la squadra con cui abbiamo lavorato ha fatto sì che questa azienda passasse da una situazione non brillante a una brillantissima». Razeto è entrato negli anni Novanta nella Grandi Motori ed è stato per 14 anni presidente e amministratore delegato, oggi è presidente dell’Isotta Fraschini, altra fabbrica di motori ma di dimensioni più piccole. «Se chiude Wärtsilä si perde un know how importante; il settore della motoristica in una nazione è un elemento fondamentale e strategico – continua - e capiamo solo oggi che cosa vuol dire strategico». «Noi è da gennaio che mettiamo in guardia il governo: appena abbiamo visto l’annuncio degli investimenti in Finlandia sul nuovo impianto, ma Wärtsilä ha preso in giro pure il ministro Giorgetti», spiega Kanidisek.

04/045/2022 Trieste, il porto

L’azienda aveva infatti dato rassicurazioni, prima firmando un protocollo con la Regione in aprile in cui si parlava della continuità produttiva e poi durante la visita ufficiale a Helsinki del ministro dello Sviluppo economico, lo scorso primo luglio. L’annuncio del ceo Hakan Agnevall di Wärtsilä, è «un vero fulmine a ciel sereno, inaspettato rispetto alle interlocuzioni avute pure con il governo di Helsinki nei mesi scorsi», scriveva Giorgetti il 27 luglio scorso in una nota del Mise. La conferma della decisione di Wartsila di non ritirare la procedura di chiusura delle attività produttive del sito di Trieste «incrina», dice il ministro, «la fiducia che era alla base dei rapporti tra Italia e Finlandia».

Secondo Kanidisek «l’azienda ha preso come scusa un crisi congiunturale facendola passare per strutturale e adesso sta di nuovo rassicurando i dipendenti rimasti della progettazione e sviluppo e del commerciale, ma ovviamente si sentono a rischio senza poter contate più sulla parte produttiva».

Una nuova Gkn?

«La procedura è simile a quella vista a Gkn - spiega Sasha Colaiuti, delegato Usb anche lui con un passato in Wärtsilä – multinazionali che vengono in Italia, usano il nostro paese come un bancomat e poi se ne vanno lasciando il deserto». Il contesto operaio probabilmente non ha la stessa consapevolezza di quello della fabbrica di Campi Bisenzio, ma per la prima volta Colaiuti si è trovato d’accordo con Fedriga al tavolo ministeriale per bloccare l’ingresso del paese scandivano nella Nato, poi ratificato senza problemi dal parlamento. Le lettere di licenziamento non sono arrivate quindi, dice il sindacalista Usb, «non siamo ancora arrivati al punto più drammatico della crisi. Si vedrà se il territorio, le istituzioni e la politica terranno il fronte compatto quando succederà».

Democratizzare l’impresa per ridurre le disuguaglianze

Un primo passaggio in cui questo fronte verrà testato sarà nei prossimi giorni, perché è stato annunciato per questa settimana l’arrivo di una nave dal Marocco per ritirare due motori ordinati dalla Dsme (Daewoo Shipbuilding & Marine Engineering) e destinati a due navi giapponesi della Mol. La spedizione è già in ritardo tanto che il console coreano in Italia, Kang Hyung-Shik, ne aveva chiesto conto al prefetto di Trieste e a Fedriga che a sua volta aveva colto l’occasione per chiedere al console di farsi promotore di un dialogo con l’azienda finlandese per convincerla a fare marcia indietro sulla chiusura della produzione in Italia. «I portuali sono in stato di agitazione – dice Colaiuti di Usb9 che è la seconda rappresentanza sindacale nel porto – pronti a impedire il carico dei motori. Vedremo come si comporteranno il prefetto e il governatore a quel punto».

Proprio l’altroieri una delegazione coreana ha fatto visita allo stabilimento e poi al porto.

Intanto i sindacati chiedono conto anche dei soldi che Wärtsilä ha ricevuto. Secondo una ricostruzione del Sole 24 Ore l’azienda finlandese avrebbe giovato di contributi pubblici per quasi 90 milioni di euro: 11,5 milioni di finanziamenti, 30 milioni di garanzie Sace, 20 milioni nel 2017 per superare una crisi produttiva, 20 milioni di contributi per la dismissione di terreni e capannoni senza contare i 34 milioni di euro richiesti con il Pnrr. «In realtà l’azienda è dal 2009 che usa la leva dei posti di lavoro per ricevere fondi pubblici ogni due anni c’era una crisi produttiva, una minaccia di esuberi e aiuti dello Stato. E comunque siamo passati da 3mila operai ai 450 di oggi», dice Colaiuti.

Il primo test

La vertenza Wärtsilä sarà il primo test per la nuova procedura per i licenziamenti collettivi approvata con l’ultima legge di bilancio: prevede 60 giorni di tempo perché l’azienda presenti un piano di mitigazione e poi 30 giorni successivi di discussione tra le parti. Dopodiché, se non ci sono altri investitori, si consumerà un ulteriore depauperamento del patrimonio industriale italiano, oltre che la prima delocalizzazione del nuovo governo.


 

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