- L’estrema destra, quella italiana in particolare e più in generale quella occidentale, ha negli anni adottato tattiche e forme di rinnovamento che la rendono a volte meno riconoscibile.
- Neofascismo e neonazismo attraggono a sé nuove generazioni di militanti non nonostante le conseguenze realizzatesi nel secolo scorso, ma appunto per queste.
- Desta preoccupazione l’assenza in Italia di un contrasto strutturato che includa una valutazione politica, alla luce degli indirizzi che ci dà la Costituzione, e di forti orientamenti formativi in seno allo stato e alle sue forze dell’ordine.
L’estrema destra, quella italiana in particolare e più in generale quella occidentale, ha negli anni adottato tattiche e forme di rinnovamento che, lasciando comunque intatti i fondamenti ideali e gli auspici, la rendono a volte meno riconoscibile.
A un secolo di distanza dal fascismo che si fa stato – e a qualche giorno dalle celebrazioni del 25 aprile – val la pena guardarsi attorno e fare chiarezza su alcuni aspetti del radicalismo di destra.
Deve essere chiaro che neofascismo e neonazismo – che oggi tendono a convergere e sovrapporsi fra loro – attraggono a sé nuove generazioni di militanti non nonostante le conseguenze realizzatesi nel secolo scorso, ma appunto per queste.
Violenza, misoginia e razzismo sono giustificate e sistematizzate non tanto da un complesso di idee, che comunque esiste, ma soprattutto da un insieme di simboli e slogan. Per dire: quanti dei militanti neofascisti sanno che con le loro magliette con su scritto “Essere l’idea! Vivere l’idea!” si trasformano in pubblicità ambulanti del giuramento delle SS italiane? Probabilmente non molti. Ma quegli esclamativi senza una spiegazione sono comunque veicolo di un istinto e di un sentimento – ovvero di “idee senza parole” – efficaci nel loro essere totalizzanti.
L’irriducibile ostilità verso le democrazie liberali, cavalcata attraverso le crisi sistemiche di questi anni, il rifiuto dei diritti universali su base della semplice cittadinanza, invece che su basi “naturali”, quali gerarchia, genere ed etnia – insomma la lotta contro il “mondo moderno” – continuano a imperversare in vari gradi nella nostra società.
Le nuove parole del razzismo
La questione razziale e di stirpe è stata fin da subito e, in maniera ancor maggiore dopo gli anni Sessanta del Novecento, al centro dello stigma verso l’estrema destra nel Dopoguerra: trovare oggi in Italia una formazione che rivendichi esplicitamente l’essere razzista è pressoché impossibile.
Nonostante questo il razzismo costituisce ancora uno dei caratteri unificanti di quell’area politica. Certo, le parole sono diverse, gli orientamenti declinati in altra maniera, ma si tratta di un adattamento tattico dettato dalle attuali contingenze sociali e storiche.
Ripartendo dall’assunto oramai incontestabile che le razze umane non esistano e che non esistano gerarchie di culture, che tutte abbiano pari dignità e pari diritto all’esistenza – cioè ripartendo proprio da tesi antirazziste – si afferma che chi non difende la propria cultura dalla commistione con le altre – e quindi dalla distruzione – sia il vero razzista, un razzista contro sé e il proprio popolo.
La parola “cultura” diviene un sostituto funzionale della parola “razza”, perché la cultura di un popolo viene sempre intesa come omogenea, immodificabile, che si tramanda di generazione in generazione. Che differenza c’è fra questo modo di intendere le culture dei popoli e qualcosa di fisico, che si tramanda attraverso i geni?
Inoltre si esclude a priori la possibilità che vi possano essere più identità che convivono nello stesso individuo. Ovvero si esclude che l’identità italiana possa convivere con l’identità africana o americana o asiatica, che non si possa essere cittadini italiani, nel pieno spirito moderno e repubblicano, senza abbandonare la storia delle proprie origini. Significa negare l’evidenza a cui siamo di fronte da almeno due generazioni. E di fatto le conseguenze sono le stesse: separazione, segregazione, respingimento, odio.
E anche l’antisemitismo, che oggi pare essere saltuario e marginale, lontano anni luce dal discorso pubblico, non è affatto sconfitto. Basta addentrarsi in quelle piattaforme dove non viene fatta attiva opera di controllo e dove l’anonimato è maggiormente garantito, come ad esempio Telegram, che di nuovo l’odio per gli ebrei in quanto tali emerge come precisa connotazione politica di gruppi composti essenzialmente da giovani maschi.
Questioni di genere
La presenza femminile nell’estrema destra difatti è minimale, ma appunto per questo è di particolare interesse.
L’8 marzo di qualche anno fa è apparsa sui social network di una formazione neofascista italiana una foto con tre ragazze che ostentavano uno striscione con su scritto «il femminismo è contro la donna». La loro riflessione ruotava attorno al fatto che al termine “donna” viene associato, oltre alla definizione di genere, anche un preciso ruolo nella società. Ovvero un ruolo naturale, non egualitario ma complementare a quello dell’uomo. Innaturale e fuorviante è quindi, per loro, affrontare le questioni di genere in senso conflittuale, perché in questo modo si mina il ruolo organico delle donne nella società nazionale.
Il reiterato fallimento di tutte le esperienze di gruppi femminili nell’estrema destra è dunque in un certo senso inevitabile, rarissimi i casi in cui sono riusciti a sopravvivere per più di qualche anno. E quando emergono campagne politiche dedicate a temi femminili sono inevitabilmente dedicate alle donne come madri, ovvero centrate sulle donne come riproduttrici della nazione, snodo ineludibile del timore dell’estinzione etnico/razziale.
È da sottolineare però l’emergere di un utilizzo strumentale di valori liberali da parte di chi altrimenti li osteggia attivamente: alcuni gruppi dell’estrema destra si fanno promotori della difesa dell’indipendenza femminile.
Il fenomeno, noto come femonazionalismo, è in realtà una giustificazione alla xenofobia, in particolare in chiave anti musulmana. Ovvero, in sintesi, l’immigrazione da paesi islamici è da bloccare perché confligge con le libertà di base delle donne. Un’ostilità esplicita verso i giovani maschi stranieri, invasori della terra patria ma temuti anche come invasori metaforici dei ventri delle donne autoctone.
Addirittura, in alcune formazioni europee, queste linee retoriche si declinano in omonazionalismo, ovvero nell’uso della difesa dei diritti delle persone omosessuali. E vi sono estensioni che mirano anche ai diritti degli animali, ad esempio per vietare le macellazioni halal.
Violenza rigeneratrice
La violenza, pur non essendogli esclusiva, ha sempre avuto un ruolo centrale nelle ideologie e nelle pratiche dell’estrema destra. Vitalismo purificatore dei mali della nazione, strumento che spezza il teatrino dell’equilibrio dinamico fra conservazione e progresso tipico delle democrazie e che porta verso la fissità di valori eterni, metodo di governo in uno stato organico che necessita la sottomissione delle aspirazioni individuali alla volontà collettiva personificata in un capo.
Le cronache italiane sono periodicamente prese da ondate di arresti che coinvolgono ritrovamenti di armi, a volte bombe rudimentali, a volte oggetti in dotazione agli eserciti.
Sedi di movimenti dell’estrema destra in cui si accumulano spranghe e bastoni. Comizi pubblici in cui si esalta l’assalto al parlamento statunitense. Per poi arrivare ai Breivik, ai Casseri, ai Traini, ai Rathjen, ai Tarrant: lupi solitari che non sono affatto solitari ma immersi in una rete di idee, frutto di parole e relazioni che si snodano attraverso i continenti.
Le forze di polizia agiscono – e spesso con efficacia – ma l’azione è di norma mirata alla mera sicurezza, che rimane claudicante e altamente incerta anche dal punto di vista giuridico. Il confronto con la Francia, dove la chiusura delle organizzazioni eversive dell’estrema destra è un fatto normale e ricorrente, o con la Germania, che indaga apertamente anche gruppi che sono ben rappresentati in parlamento, è un confronto impietoso.
Il fascismo è un fenomeno che ci appartiene. Al pari di altri insiemi ideali è un prodotto della cultura europea e non può essere suscettibile di una sconfitta definitiva se non da parte del tempo. La questione fondamentale è dunque la sua gestione in un contesto democratico. La sua pericolosità non è tanto misurabile con i suoi successi elettorali, che in Italia non si sono mai realizzati, ma per l'influenza complessiva che ha sulla società e la politica.
Parole e idee estreme possono essere adottate da partiti di vasti consensi, perché solo di poco meno estreme di quelle del neofascismo. Insomma, semplificando al massimo, ciò che in questi giorni qualcuno ha ribattezzato “effetto Zemmour”. Narrazioni di successo che in grandi paesi come Usa, India, Cina, Russia e Brasile hanno influenzato i più alti incarichi istituzionali.
E se in una democrazia matura una certa quota di spinte eversive è fisiologica, desta preoccupazione l’assenza in Italia di un contrasto strutturato che includa una valutazione politica, alla luce degli indirizzi che ci dà la Costituzione, e di forti orientamenti formativi in seno allo stato e alle sue forze dell’ordine. Un contrasto attivo, anche alla luce della situazione internazionale, non è più rimandabile.
Giovanni Baldini, si occupa di estrema destra per Patria indipendente, rivista dell’Anpi. È fra gli autori di “Cattive compagnie. Neofascisti, istituzioni, politica. I casi eclatanti degli ultimi anni”, i libri di Bulow editore.
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