Alla fine di via Breda Vignazzi, budello di asfalto che finisce nel nulla della pianura reggiana, sulla destra c’è il simbolo del potere dei padrini della ‘ndrangheta emiliana.

Confinanti con i piloni di calcestruzzo dell’imponente viadotto della cispadana che taglia la valpadana, troviamo cinque mila metri quadrati e più tra capannoni, terreni e villette, che sono stati sede dell’azienda diretta in prima persona da uno dei boss della cosca che domina la regione.

Il 14 marzo questo fortino, crocevia di affari e delitti, è stato assegnato alla protezione civile di Brescello, provincia di Reggio Emilia, unico comune sciolto per mafia nella regione, che continua a sentirsi immune dal radicamento mafioso.

Il complesso immobiliare è stato confiscato alla famiglia Grande Aracri, sovrani assoluti della ‘ndrangheta, che a Brescello hanno stabilito decenni fa il loro centro di comando.

La confisca, ma ancora di più il riutilizzo sociale del bene, è una vittoria dello stato. Tuttavia le conquiste sono offuscate da un ritorno al passato, caratterizzato da indifferenza, superficialità e complicità ancora estese nel tessuto economico e sociale emiliano.

C’è chi dopo le retate con centinaia di arresti, i maxi processi e le confische milionarie, di mafia non vuol più sentire parlare e ha avviato un’operazione di normalizzazione.

L'azienda confiscata al clan Grande Aracri a Brescello: ora è stata assegnata alla locale protezione civile

Con la convinzione che parlare e denunciare i poteri criminali in regione sporcasse l’immagine di territorio efficiente e produttivo, diminuisse, cioè, l’attrattività per gli investitori esterni. Una storia che si ripete, dalla Sicilia alla Lombardia, fino all’Emilia Romagna.

Da Peppone al padrino

Numeri e storie di oggi sono imprescindibili per capire cosa è cambiato a distanza di un decennio nella regione che, secondo i dati processuali in alcuni casi definiti fino all’ultimo grado di giudizio, ha covato e coccolato una ‘ndrangheta diventata in parte autonoma dalla casa madre calabrese tanto da tramutarsi in ‘ndrangheta emiliana, che ha il fortino ideologico in un paese della provincia reggiana di 5 mila abitanti, Brescello, celebre sete dei film di Peppone e don Camillo ispirati ai racconti di Giovannino Guareschi. E ha la fondamenta finanziarie che si estendono in tutta la regione, ma anche in Toscana, in Veneto e in Lombardia.

Il quartier generale da cui l’associazione mafiosa dirige affari e decide spedizioni è via Pirandello, a Brescello. Un nugolo di ville disposte da entrambi i lati di una strada a ferro di cavallo.

La zona è fuori dal centro storico e qui i capi clan hanno eretto le loro case. Alcune oggi sono disabitate, come le villette al numero 1 e 3: i poliziotti durante il blitz con cui hanno confiscato gli immobili hanno trovato tavoli ornati d’oro, marmi pregiati ovunque, piscina.

In una di queste viveva il boss Francesco Grande Aracri. Oggi la cassetta postale della villa al civico 1 trabocca di volantini pubblicitari, l’erba incolta, le foglie sul viottolo bloccano l’accesso. Il senso dell’abbandono però non deve trarre in inganno. Il boss, fratello del capo supremo, è in carcere ma c’è chi tra le nuove leve ha preso in mano l’organizzazione. E a Brescello la vita prosegue come prima dello scioglimento per mafia.

Non c’è più il sindaco Marcello Coffrini, eletto con il Pd, erede di Ermes Coffrini, il Peppone che per anni ha governato il paese. Coffrini junior, mai indagato, si è distinto per un’intervista in cui dopo aver parlato con il boss del paese lo definiva «tranquillo, composto, educato, non sembra come lo descrivono». L’allora sindaco si compiaceva del fatto che il capo clan Grande Aracri era riuscito a ripartire con la sua azienda, ditta finita già nel mirino dell’antimafia.

Da quel momento e con gli elementi raccolti durante l’indagine Aemilia la prefettura dispose le verifiche nel comune amministrato da Coffrini. Risultato finale: i commissari che hanno messo le mani negli atti amministrativi dell’ente hanno raccolto le prove di concessioni fatte dal comune a personaggi del clan. Dunque così si è arrivati allo scioglimento del primo comune emiliano per mafia.

L’attesa sentenza della Cassazione, prevista per sabato 6 maggio, sull’inchiesta denominata Aemilia chiuderà un capitolo, ma la storia della ‘ndrangheta emiliana non si esaurita con questa indagine né con questi processi.

Il verdetto che arriverà riguarda 87 imputati, solo una piccola parte, gli ultimi rimasti di un gruppo di quasi 200 persone indagate e processate (la maggior parte con condanna definitiva) per essere affiliati o complici della cosca emiliana. Di certo la fine giudiziaria di Aemilia non coincide con il tramonto della ‘ndrangheta in regione. Altri processi sono in corso, il più importante è l’appello in cui è imputato Giuseppe Caruso (Fratelli d’Italia), ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, condannato in primo grado a 20 anni insieme al figlio del boss Grande Aracri. Le nuove leve, inoltre, sono operative su tutto il territorio: sfruttano le relazioni finora rimaste fuori dal mirino dell’antimafia.

Cosa è cambiato a Brescello da allora, a parte l’amministrazione oggi guidata da una donna, Elena Benassi (classe 1988), lo intuiamo passeggiando per le strade del paese, dopo essere stati nell’azienda confiscata al padrino.

«Non ci sono altri circoli politici oltre a quello del Pd», dice Saverio Bonini, giovanissimo segretario del partito fino a qualche anno fa poi passato a Italia Viva.

«Attualmente ci saranno appena 30 iscritti», spiega Bonini, ben lontani gli anni d’oro con 300 militanti tesserati. Sono i voti persi dalla sinistra però a preoccupare i dirigenti di partito, alle ultime elezioni politiche la Lega primo partito, a venti punti di distanza c’era il Pd. «Dallo scioglimento è cambiato poco, a parte l’amministrazione che è stata eletta dopo il commissariamento per mafia», aggiunge Bonini, «ma c’è ancora molta sottovalutazione, o meglio il paese è diviso in tre categorie: chi ha capito gli errori fatti, chi considera un’ingiustizia lo scioglimento e le indagini della magistratura e chi non si pente di ciò che ha fatto aprendo le porte del municipio alla ‘ndrangheta».

Il gattopardo dell’Emilia

Come nella Sicilia del gattopardo, in Emilia il cambiamento è solo apparente. In Emilia la mafia non è stata sconfitta dopo la mastodontica operazione antimafia del 2015. Iniziata nel 2010, ma entrata nel clou esattamente dieci anni fa, nel 2012, è il capitolo della grande enciclopedia della storia della criminalità organizzata in Italia. Passata alla storia con il nome latino “Aemilia”, intendendo prima l’indagine e poi processo che ha portato alla sbarra quasi 300 persone tra boss, gregari, imprenditori, politici, professionisti nati e cresciuti tra Bologna e Piacenza.

Il nostro viaggio inizia, dunque, dal numero 71: il totale delle aziende colpite da interdittive antimafia emesse dalla sola prefettura di Reggio Emilia in un anno e mezzo. Tutte queste aziende sono state escluse dalle “White list”, l’elenco di imprese certificate come “pulite”, scevre da condizionamenti mafiosi, e perciò idonee a lavorare nei cantieri finanziati con soldi pubblici.

Per capire l’enormità del dato è utile confrontarlo con i provvedimenti del prefetto Antonella De Miro, che con la sua azione ha portato elementi utili ai magistrati che indagavano sulla ‘ndrangheta emiliana: dal 2009 al 2014 61 interdittive, la stragrande maggioranza confluite poi nel processo Aemilia, che è stato diviso in due grandi filoni uno dei queli, per chi ha scelto il rito abbreviato, già concluso in Cassazione, che ha messo il bollino di mafia sull’organizzazione criminale che ha dominato la scena regionale e nota come ‘ndrangheta emiliana.

Un’organizzazione governata da una cosca, capeggiata da Nicolino Grande Aracri, il padrino che dà il nome al clan. Il capo, oggi uno dei vertici di tutta la mafia calabrese, si è preso il palcoscenico con la violenza tra le fine degli anni Novanta e i primi del Duemila. Lui era un fedelissimo del vecchio padrino che comandava in Emilia dagli anni ‘70-’80: Antonio Dragone, don Totò, per gli affiliati. Nel 2004 è stato ucciso in Calabria, l’agguato fu organizzato dai Grande Aracri, che per conquistare il potere doveva eliminare il vecchio boss. E lo hanno fatto armati fino ai denti, come in una guerra tra super potenze: i sicari su auto blindate, armati di Kalashikov e bazooka, hanno attaccato la macchina anch’essa blindata di Dragone.

Non ci fu bisogno di usare il cannone, i proiettili dei fucili d’assalto furono sufficienti per uccidere don Totò Dragone. Scena da guerra, che tra il 1996 e il 1999 si erano ripetute anche nel centro di Reggio Emilia.

I cittadini più anziani ricordano ancora oggi la bomba a mano lanciata al bar pendolino, le vetrine devastate, il sangue sui marciapiedi.

L’omicidio del 2004 chiuse la parentesi di brutalità, segna l’inizio del periodo di sommersione della ‘ndrangheta emiliana, solo affari e violenza solo quando necessaria e in ogni caso mirata a obiettivi che non avrebbero suscitato allarme sociale.

I profitti montano a dismisura, nelle casse dell’organizzazione di Grande Aracri iniziano a entrare miliardi di lire e poi milioni di euro. Costituiscono centinaia di aziende con sede al nord, spesso raggruppate in consorzi e raggrupamenti temporanei di imprese con cui partecipavano agli appalti più rilevanti fini al 2015: dall’alta velocità ai cantieri della ricostruzione post terremoto, a L’Aquila e in Emilia.

La mafia nei cantieri

La più recente delle misure di blocco delle aziende è del 22 gennaio scorso. L’interdittiva ha colpito un imprenditore imparentato e frequentatore di pezzi grossi della ‘ndrangheta emiliana. La sua è una piccola azienda, ma parte di consorzi importanti che lavorano in subappalto nei cantieri pubblici anche della ricostruzione.

Due giorni prima, il 20 gennaio, un’altra interdittiva ha colpito un consorzio edile. Dall’informativa, letta da Domani, emerge un ruolo molto attivo nei subappalti post terremoto.

Settanta pagine di parentele, relazioni, precedenti penali: elementi che conducono ancora una volta a casa del padrino Grande Aracri. Il consorzio, come molte altre aziende, farà ricorso. Al momento non si conosce l’esito.

Come per le altre interdittive non comporta in automatico l’avvio di un’indagine giudiziaria, si tratta di un procedimento amministrativo. Tuttavia, il materiale raccolto dalla prefettura è stato spedito in procura antimafia, all’ufficio del pm, Beatrice Ronchi, che segue Aemilia nei mille rivoli. Del resto le numerose interdittive sono state fondamentali per ampliare il raggio investigativo dell’inchiesta sulla ‘ndrangheta emiliana.

«Il lavoro della prefettura nell’emissione delle misure interdittive sulle aziende è facilitato oggi dall’enorme attività di indagine di Aemilia», dice il prefetto Iolanda Rolli, che prima di approdare a Reggio Emilia dalla prefettura di Macerata ha gestito l’emergenza terremoto nel centro Italia.

«Le informazioni raccolte dagli investigatori e confluite in sentenze anche definitive rappresentano un patrimonio conoscitivo straordinario che permette di individurare relazioni e intrecci delle imprese che chiedono l’ammissione nelle “White list”», spiega Rolli.

Delle 71 interdittive firmate in un anno e mezzo, 18 ricadono nei primi tre mesi del 2022, e 38 nel 2021. Un trend in crescita, preoccupante se si analizza con l’esito dei processi, che avrebbero dovuto estirpare la mafia dalla via Emilia. «La maggioranza dei nostri provvedimenti riguardano legami aziendali con la ‘ndrangheta», aggiunge il prefetto.

La prevenzione antimafia secondo Rolli deve però compiere un passo ulteriore, oltre ai cantieri pubblici è necessario arginare le presenze criminali anche in quelli privati, settore fortemente segnato negli anni passati dalla presenza di ditte del clan Grande Aracri, che in provincia di Reggio e Parma hanno costruito intere zone residenziali.

Per questo Rolli ha deciso di siglare un accordo con le istituzioni locali: «Il 20 dicembre scorso abbiamo firmato un protocollo per vigilare sull’edilizia privata, ci permetterà di analizzare a campione, un 10 per cento circa, le imprese che richiedono la Scia(la certificazione, cioè, di inizio attività obbligatoria ndr)». Una novità assoluta.

Certo è che la prefettura di Reggio Emilia, ufficio in prima linea sul fronte della lotta alla ‘ndrangheta, soffre di una carenza di organico notevole, i dati, confermati dal prefetto, rivelano una scopertura di organico pari al 50 per cento. Con 4 persone che si occupano di interdittive.

Rolli è anche preoccupata dalla pioggia di denaro in arrivo con il Piano nazionale di rinascita e resilienza (Pnrr) e degli Ecobonus: «Vigileremo, perché siamo di fronte a una mafia non più sanguinaria, ma affarista e organizzata, per questo chi si occupa del contrasto deve essere altrettanto organizzato e fare rete, scambiarsi informazioni».

Il prefetto sta sensibilizzando il territorio e ha chiesto più volte agli imprenditori e alle stazioni appaltanti di ingaggiare le aziende per i subbappalti andando a pescare nelle White list.

Lo strumento delle interdittive ha provocato una spaccatura profonda nel mondo economico e politico locale.

Economia o legalità?

Dieci anni fa, quando l’allora prefetto aveva cominciato a usarle come mai prima, una parte delle associazioni di categoria, dei partiti e dei professionisti, hanno criticato aspramente l’attività di contrasto della prefettura, accusata, prima a bassa voce poi con toni sempre più accesi, di uccidere la florida economia della regione.

A questo gruppo più istituzionale si sono uniti cartelli di imprese collegate alla ‘ndrangheta, che con interviste sui giornali e nelle televisioni avevano avviato una campagna mediatica per screditare il prefetto De Miro. Alla guerra dell’informazione della ‘ndrangheta emiliana è dedicato un intero capitolo dell’inchiesta Aemilia: gli imprenditori, in alcuni casi veri e propri boss, avevano trovato in giornalisti compiacenti le sponde necessarie per dibattere in trasmissioni molto seguite.

Il processo Aemilia ha avuto tra gli imputati un giornalista, Marco Gibertini, che tra le altre cose ha permesso al referente della cosca a Reggio di intervenire durante un programma da lui condotto per accusare il metodo De Miro e le interdittive causa del fallimento delle aziende, a detta del boss, colpevoli solo di essere di proprietà dei calabresi.

La strategia raffinata fondata sulla comunicazione e sulla disinformazione ha però fatto breccia e della questione ha iniziato a farsi carico anche la politica, che in alcuni casi è finita sul banco degli imputati seppure poi assolta per non aver commesso il fatto. Di certo però restano le frequentazioni con i boss dei politici locali e il sostegno di questi ultimi dato alle ditte interdette. Non è reato, ma è opportuno per chi fa politica colloquiare con i mafiosi?

In provincia di Reggio Emilia dopo l’indagine Aemilia sui Grande Aracri il numero di beni sequestrati e confiscati è schizzato da poche unità a 126 in totale tra immobili e società. La cifra aumenta se si sommano le altre province di Modena, Parma, Piacenza, Bologna.

Chi segue i dossier sui beni confiscati ci spiega, tuttavia, che la procedura della consegna alla collettività continua a essere farraginosa. Spesso, è il caso di molte strutture in Emilia sottratte alle cosche, il processo di riassegnazione si incaglia in scontri tra Agenzia delle Entrate e Agenzia dei beni confiscati: con la prima che esige l’estinzione dei debiti lasciati dai prestanome dei padrini.

Una nuova vita per alcuni beni un tempo in mano alla ‘ndrangheta è però possibile. Soprattutto in questo tempo di guerra, di persone in fuga dai conflitti. «Abbiamo selezionato 67 posti letto, 12 immobili circa, per accogliere i profughi ucraini». (1-continua)

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