Si è chiuso il processo d’appello Aemilia: 118 imputati. Confermata l’esistenza della mafia in regione. Ma i clan comandano ancora. Le nuove leve si muovono nell’ombra e i pentiti svelano le strategie future. In un libro il potere globale della mafia più misteriosa al mondo: l’Atlante illustrato della ‘ndrangheta (Rizzoli)
- Il primo maxi processo contro la ’ndrangheta emiliana è quasi giunto al termine. Il 17 dicembre la sentenza della Corte d’appello ha confermato l’impianto accusatorio della procura antimafia di Bologna e le indagini iniziate quando alla guida dell’ufficio inquirente c’era l’esperto procuratore Roberto Alfonso, da poche settimane in pensione.
Prima dell’arrivo di Roberto Alfonso alla procura di Bologna non era stato fatto nulla di sistematico sui clan in Emilia. Era un porto franco, i bossi hanno fondato l’impero liberamente.
In questa vicenda è inciampato Carlo Giovanardi, l’ex senatore, e già ministro del governo Berlusconi, per aver fatto pressioni su un ufficiale dei carabinieri per favorire l’imprenditore Bianchini. Inizialmente questo procedimento era marchiato con l’aggravante mafiosa, poi decaduta.
Il primo maxi processo contro la ’ndrangheta emiliana è quasi giunto al termine. Il 17 dicembre la sentenza della Corte d’appello ha confermato l’impianto accusatorio della procura antimafia di Bologna e le indagini iniziate quando alla guida dell’ufficio inquirente c’era l’esperto procuratore Roberto Alfonso, da poche settimane in pensione.
Indagini nelle quali si è distinta una giovane e coraggiosa donna magistrato, Beatrice Ronchi, con una storia di inchieste condotte in Calabria, nel cuore pulsante della mafia calabrese. I boss dell’organizzazione sono stati condannati per mafia. Gli uomini più fidati del capo Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza” o “Mano di gomma”, sono stati riconosciuti anche in secondo grado organizzatori e promotori delle attività del clan, trasferitosi nella pianura padana fin dagli anni Settanta.
In sintesi il processo d’appello ha dato 700 anni di reclusione ai 118 imputati. La procura generale, rappresentata da Lucia Musti, aveva chiesto pene per circa mille anni. I condannati sono stati 91, mentre ci sono state 27 tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni.
La condanna più nota è quella a due anni di Vincenzo Iaquinta, l’ex bomber della nazionale campione del mondo, della Juventus e dell’Udinese. In realtà la sua è una posizione minore, si è parlato meno dei 13 anni inflitti al padre, Giuseppe, braccio imprenditoriale della ‘ndrangheta emiliana, abile sarto di relazioni nel tessuto economico e sociale della regione, ritenuto responsabile di associazione mafiosa.
Vuoti di memoria
Il dato sulle prescrizioni è interessante. Queste ultime sono state numerose, ma chi ha lavorato alle indagini offre una chiave di lettura. «Sono stati contestati reati risalenti anche al 2004, quindi è normale che siano stati cancellati, ma era utili inserirli nel quadro delle prove con il fine di far capire che la ‘ndrangheta emiliana non è un’emergenza, né un fenomeno recente», dice un fonte giudiziaria vicina a chi ha seguito il dibattimento dall’inizio. Questa analisi mette in rilievo le mancanza del passato. Prima dell’arrivo di Roberto Alfonso alla procura di Bologna non era stato fatto nulla di sistematico sui clan in Emilia.
Era un porto franco. Un esempio: c’erano boss che seppure condannati per mafia nei territori di origine, in Emilia erano considerati delinquenti comuni quando venivano pizzicati a fare un’estorsione o una minaccia. Per essere più precisi ci sono stati capi clan che hanno preferito trasferirsi qui per evitare che i loro reati venissero ricondotti alla questione mafiosa.
Alfonso questo lo aveva capito e ha iniziato a mettere a sistema indagini solo apparentemente slegate tra loro. Inchieste su singole estorsioni nello stesso territorio, nella stessa provincia, nello stesso comune, confluivano così in un unico grande faldone: Aemilia, l’indagine affidata al nucleo investigativo dei carabinieri di Modena e di Fiorenzuola D’Arda (Piacenza) che ha prodotto la più grande operazione antimafia nel nord Italia, con 161 arresti e oltre 200 indagati. «È solo il primo passo», aveva dichiarato l’allora procuratore capo Alfonso, «abbiamo raccolto una mole di elementi sui quali lavorare per i prossimi dieci anni». E così è stato perché da allora è stato un susseguirsi di arresti e sequestri di beni impressionante.
Giovanardi a processo
Su una cosa sono tutti d’accordo: la sentenza del 17 dicembre dei giudici della Corte d’appello è una sentenza che certifica l’esistenza di una ’ndrangheta radicata lungo la via Emilia, da Bologna a Piacenza, con epicentri Reggio Emilia e Modena. Ma è solo un capitolo giudiziario dei tanti che narra l’arroganza e la raffinatezza criminale dei protagonisti di questa saga a tratti noir, nella quale il confine tra buoni e cattivi non è mai così netto, dove il bianco e il nero spesso si fondono nel grigio delle complicità con la professioni, l’imprenditoria, la politica, la finanza.
Sarebbe un errore, tuttavia, pensare che sia chiusa così la storia della ‘ndrangheta emiliana. Ci sono ancora processi in corso. Il 23 dicembre, per esempio, è fissata l’udienza del processo di appello contro l’avvocato Giuseppe Pagliani, ex capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale a Reggio Emilia, accusato di concorso esterno alla ‘ndrangheta. Il pm Beatrice Ronchi ha chiesto la condanna a 4 anni.
Dall’indagine Aemilia è nata la costola sui servitori infedeli. Al centro lo scandalo della prefettura di Modena, dove l’allora potente capo di gabinetto Mario Ventura avrebbe favorito un’azienda modenese, Bianchini costruzioni, il cui titolare è stato condannato in appello per complicità con le cosche.
In questa vicenda è inciampato Carlo Giovanardi, l’ex senatore, e già ministro del governo Berlusconi, per aver fatto pressioni su un ufficiale dei carabinieri per favorire l’imprenditore Bianchini.
Inizialmente questo procedimento era marchiato con l’aggravante mafiosa, poi decaduta, ed è quindi stato trasferito per competenza alla procura di Modena. Giovanardi è dunque imputato nella sua città per «minaccia a corpo politico dello stato».
A ottobre si è chiuso il primo grado di un altro processo: l’ex presidente del Consiglio comunale di Piacenza, politico di Fratelli d’Italia, è stato condannato a 20 anni per mafia.
Nel 2016 le inchieste dell’antimafia bolognese hanno portato anche allo scioglimento per mafia del primo comune emiliano: Brescello, il paese della bassa reggiana, celebre per aver fatto da set alle avventure cinematografiche dei personaggi di Giovannino Guareschi, Peppone e don Camillo.
I clan comandano ancora
Tuttavia il romanzo criminale di questa organizzazione non è giunto al termine. Gli ultimi capitoli sono ancora da scrivere, perché la mafia, quando è tale, è in grado di rigenerarsi e di riempire gli spazi lasciati vuoti dai capi e dai gregari arrestati. Per questo motivo è un errore pensare che le cosche calabresi dell’Emilia siano state sconfitte. Indizi e tracce di questa continuità si trovano nei feudi tagliati a metà dalla via Emilia.
Nei santuari della ’ndrangheta imprenditrice tra Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. L’esercito di boss, fedelissimi e complici, che ha fatto di queste tranquille province un rifugio sicuro dove concludere affari milionari è solo stato scalfito.
Al capo carismatico del clan, Nicolino Grande Aracri, sono succeduti i giovani che hanno appreso dal padrino l’arte manageriale: il boss aveva imparato a conoscere i vicoli di Bologna e Reggio Emilia meglio delle strade del suo paese natale, Cutro, provincia di Crotone. Le foto agli atti delle inchieste lo ritraggono sorridente e sempre ben vestito, con abito blu e cravatta, sotto gli uffici di insospettabili commercialisti. Ora però è in carcere, così come i suoi storici referenti.
Chi gestisce dunque quel patrimonio di relazioni e business costruito negli anni con violenza e intelligenza? «C’è un gruppo soprattutto di giovani e parenti vari ancora liberi che hanno preso in mano le redini del clan», spiega una fonte investigativa.
La cosca si è attorniata di uomini validi, bravi a cambiare abito a seconda delle occasioni. «Solo che ci sono persone che dove si devono sedere si siedono... vestiti da pecorai si vestono da pecorai... dove ci sono quelli con la cravatta si siedono con la cravatta», ha raccontato un affiliato poi pentito. Collaboratori di giustizia che in Emilia sono aumentati e stanno facendo luce su affari e rapporti con il potere.
Per capire chi sono i nuovi manager della cosca bisogna tornare a Brescello. Qui tra le statue di Peppone e don Camillo che guardano sbalordite il nuovo corso del paese, c’è uno stuolo di parenti e fedelissimi, anche giovani, che sono pronti a riempire il vuoto temporaneo lasciato da chi è finito in carcere. Sono movimenti di successione criminale che avvengono nell’ombra.
Il silenzio che è tornato ad avvolgere la pianura, dopo l’indignazione iniziale, rende impercettibili questi cambiamenti. Alla fine se la ’ndrangheta non spara ci si può anche fare affari, purché non si dica. In fondo i voti fanno comodo ai politici e i denari alle aziende in crisi.
© Riproduzione riservata