- L’ex del New York Times Ben Smith è solo l’ultimo a lanciare una testata rivolta a «200 milioni di persone con istruzione universitaria e che parlano l’inglese».
- Negli ultimi anni, uno dei modelli di business di maggiore successo è quello che punta a ricavare tanti soldi da un numero ristretto di abbonati.
- In questo modo, tutta l’informazione di qualità rischia di finire dietro ai paywall, abbandonando al sensazionalismo il 95 per cento dei cittadini.
«Nel mondo, ci sono 200 milioni di persone con un’istruzione universitaria e che parlano in inglese: quella è la nostra audience», ha dichiarato Ben Smith, nota firma statunitense che ha da pochissimo abbandonato il New York Times per fondare una nuova testata assieme a Justin Smith, ex amministratore delegato di Bloomberg Media.
Non si conosce ancora nulla di questa nuova avventura. È chiaro solo quali siano i lettori che i due Smith (nessuna parentela) vogliono conquistare: l’élite globalizzata, quella che prima di prendere un aereo per Giacarta fa colazione a Roma leggendo il Guardian o il Wall Street Journal. E che è disposta a pagare caro per avere accesso a un’informazione di prima mano e di alta qualità.
L’idea di ricavare parecchio denaro da un numero limitato di lettori benestanti non è poi così nuova. Il capofila è sicuramente Politico: testata fondata nel 2007, specializzata nei retroscena di Washington e che ha anche una sua versione europea. Tutti possono leggere gli articoli del sito base, ma la maggior parte dei ricavi deriva dall’abbonamento premium a Politico Pro: per 10mila dollari all’anno (minimo), lobbisti, imprenditori e simili possono ricevere indiscrezioni, approfondimenti e dettagliatissime analisi relative al loro settore.
Gli esempi
Secondo quanto riporta Valerio Bassan nella sua newsletter Ellissi, gli abbonati a Politico Pro sarebbero tra i 30 e 50mila: un numero sufficiente a generare guadagni di tutto rispetto (anche se i dettagli non sono noti) e a convincere il colosso dell’editoria tedesca Axel Springer – già partner di Politico Europe – ad acquistare nell’ottobre scorso tutta la baracca per un miliardo di dollari.
Non è l’unico caso: The Information è la rivista dedicata al mondo della Silicon Valley fondata nel 2013 da Jessica Lessin. L’accesso completo agli articoli – tutti protetti da un invalicabile paywall – costa 400 dollari l’anno: una cifra che permette, stando alle affermazioni di Lessin, di mantenere i conti saldamente in attivo. Non è noto quanti siano gli abbonati a The Information: i 225mila utenti dichiarati comprendono infatti anche gli iscritti alla newsletter gratuita. Fatti due calcoli, però, poche decine di migliaia di abbonati sono più che sufficienti per mantenere una redazione di 49 persone.
L’èra post-social
Oltre agli storici Politico e The Information, c’è tutta una nuova ondata di testate che segue lo stesso modello di business: Punchbowl News si occupa di politica, Puck si muove tra Hollywood e la Silicon Valley e a queste si aggiungono le newsletter a pagamento curate da giornalisti star e ospitate su Substack (i dieci autori più seguiti ricavano oltre 20 milioni di dollari l’anno).
L’ultimo arrivato è invece la versione “pro” di Axios, testata caratterizzata da articoli brevi, a punti ed estremamente chiari che ha appena lanciato una serie di newsletter verticali rivolte a “investitori, trader, dirigenti, venture capitalist e chiunque debba prestare attenzioni alle operazioni commerciali”. Ogni singola newsletter costerà 600 dollari l’anno, mentre per ricevere tutte le cinque al momento disponibili si dovranno versare 1.800 dollari.
In ciascuno di questi casi, l’obiettivo è di conquistare un’audience estremamente specializzata, a cui – secondo quanto scritto da Ben Smith in un memo interno rivelato proprio da Axios – le testate tradizionali non sembrano interessate. «A livello operativo, politico e culturale, le istituzioni editoriali sono quasi paralizzate di fronte agli stravolgimenti sociali e tecnologici. È giunto il momento che l’industria dell’informazione entri nell’èra “post-social media”».
Aumentare gli abbonamenti
Al di là di quanto appaia beffardo che una realtà come il New York Times – che a noi italiani sembra utopistica sotto ogni punto di vista (qualitativo, tecnologico, strategico) – venga definita “paralizzata”, l’aspetto più interessante è probabilmente quello dell’informazione post-social media. Che cosa s’intende? In breve, com’è ormai chiaro da tempo, l’epoca in cui si poteva sperare di tenere in piedi una testata grazie a vagonate di click (generati anche tramite i social media) e ai conseguenti introiti pubblicitari si è chiusa.
È un modello di business che non ha mai davvero funzionato, che dipendeva tantissimo dagli algoritmi dei social (e in particolare da Facebook, che oggi è meno seguito e soprattutto penalizza i link) e che in ogni caso non ha mai garantito le risorse necessarie a produrre informazione di qualità.
E così, testate un tempo considerate punti di riferimento dell’innovazione – come BuzzFeed (le cui azioni sono crollate del 60 per cento da novembre a oggi) o Vice – si trovano adesso in serie difficoltà e costrette a trasformarsi in piattaforme ibride tra informazione ed e-commerce. Qual è l’alternativa? Secondo l’ultimo report del Reuters Institute, il 79 per cento degli editori a livello internazionale considera l’incremento degli abbonamenti la priorità numero uno.
Un lusso per pochi
Quindi, da una parte abbiamo il successo di testate di nicchia ed estremamente costose, dall’identità molto forte e rivolte alle élite globali; dall’altra, un numero in costante crescita di quotidiani che sperano di imitare l’esempio del New York Times (7,6 milioni di abbonati digitali) e vendere un ampio numero di abbonamenti (attorno ai 10 dollari al mese) alla fascia medio-alta dei paesi di origine.
Risultato? Tutta l’informazione, anche quella non di settore, sta venendo gradualmente recintata dietro a un paywall, scavalcabile solo da chi ha i mezzi per pagare. E il restante 95 per cento dei lettori, quello che secondo una ricerca della rivista specializzata Digiday non è disposto ad abbonarsi (per ragioni economiche o perché non abbastanza interessata)? Il rischio è che la quasi totalità della popolazione finisca per avere accesso solo a notizie brevi, oppure a gossip e articoli sensazionalistici prodotti da testate editoriali che si fanno pochi scrupoli pur di macinare milioni di click (e che spesso ricadono nella destra dello spettro politico).
In un mondo in cui la disuguaglianza è in costante crescita, anche l’accesso all’informazione sta diventando un lusso per pochi. «n questo ambito commerciale, la qualità sta venendo supportata dalle audience disposte a pagare», ha spiegato a Media Trends il docente di comunicazione Rodney Benson. «Sul lungo termine, ciò non può che avere ripercussioni estremamente negative sotto l’aspetto civico».
Il paywall temperato
È una preoccupazione condivisa anche nel mondo giornalistico: sempre secondo la ricerca del Reuters Institute, il 47 per cento degli addetti ai lavori teme che il modello degli abbonamenti finisca per servire solo la fascia borghese e istruita del pubblico, abbandonando tutti gli altri all’informazione gratuita finanziata da click e pubblicità.
Come se ne esce? Negli ultimi due anni, è stata per esempio apprezzata la scelta di moltissime testate (anche in Italia, seppur spesso in ritardo) di eliminare il paywall da notizie riguardanti la pandemia, consentendo a chiunque di avere accesso a informazioni e approfondimenti d’importanza cruciale. Un’altra possibilità, in Italia poco diffusa, è quella del cosiddetto “paywall temperato”, che dà la possibilità di leggere gratuitamente 3, 5 o 10 articoli gratuiti al mese. In questo modo, il lettore occasionale ha accesso a una quota d’informazione, mentre quello assiduo è comunque spinto ad abbonarsi alla sua testata preferita.
Gratis per tutti
La soluzione teoricamente perfetta è però quella individuata dal Guardian, che essendosi costruito un ampissimo seguito e una grande credibilità (oltre ad avere accesso a un’audience globale grazie alla lingua inglese) può tenere i suoi articoli aperti a tutti, chiedendo ai lettori più affezionati di versare una quota saltuaria oppure ricorrente. Uno strumento che ha generato nel 2021 quasi 500mila singole donazioni e 580mila donazioni ricorrenti, a cui si aggiungono oltre 400mila abbonamenti digitali. Le donazioni, per il Guardian, sono diventate uno degli strumenti principali grazie ai quali i bilanci sono tornati in attivo.
Sono pochissime, però, le testate che possono permettersi un modello di business come quello del Guardian, destinato probabilmente a restare un caso più unico che raro (soprattutto per una testata di quelle dimensioni). Ma davvero il problema dell’informazione a pagamento è qualcosa di nuovo? In fondo, prima che internet ci illudesse con il pericoloso miraggio della gratuità, la situazione era simile a quella che oggi ci fa preoccupare: l’accesso all’informazione era riservato alle persone disposte ad acquistare i quotidiani e i settimanali cartacei, pagando cifre anche superiori a quelle richieste oggi.
Il punto però è proprio questo: per oltre vent’anni abbiamo pensato che fosse possibile diffondere a tutti, senza costi, l’informazione. Ma i calcoli erano completamente sbagliati. Oggi, al contrario, il giornalismo di qualità è riservato a una piccola nicchia globale di professionisti e addetti ai lavori disposta a pagare caro. In una società economicamente e politicamente sempre più diseguale, si sta polarizzando anche l’accesso all’informazione. Dando vita a un perfetto circolo vizioso.
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